Il cielo sopra Bagnoli potrebbe intitolarsi il nuovo film di Antonio Capuano parafrasando il capolavoro di Wenders, per come le tonalità cromatiche di certe ambientazioni naturali e le gradazioni di luce possono essere strettamente connesse al luogo e alle storie che si racconta. E all’inizio delle riprese di Bagnoli Jungle il regista ha voluto appunto un cielo grigio, livido, opaco ideale per filmare la spiaggia di Coroglio travolta dal degrado, in una zona baciata di solito da un clima splendido e da una solarità contagiosa. Ma questo è un dettaglio perché in genere le storie di Capuano – da Vito e gli altri a Pianese Nunzio, dall’episodio de I vesuviani a Polvere di Napoli, da Luna rossa a La guerra di Mario – a prescindere dalle condizioni climatiche della location non sono mai solari, non ammiccano alla pacificazione, non sfumano sui contrasti e sui conflitti, fanno rimbalzare interiorità pregnanti (non a caso uno degli autori preferiti di Capuano è Bergman). A quattro anni di distanza da L’amore buio, l’autore napoletano è tornato dietro la macchina da presa per raccontare la «sua» Napoli, quella spigolosa e marginale, lontana da tutte le oleografie di destra e di sinistra, quella che ‘urla’ il diritto di esistere oltre le convenzioni, i pregiudizi, la propaganda di regime. E ha scelto uno scenario difficile e controverso, quello della Bagnoli post-Italsider, dell’archeologia industriale, quello della dismissione di una delle più importanti fabbriche del polo siderurgico nazionale, quello di una delle roccaforti della classe operaia meridionale ma anche luogo natio di tanti artisti, i fratelli Bennato in testa. Il più anarchico, solitario, «non-riconciliato» della vecchia cosiddetta «Nouvelle Vague» napoletana non fa mai un cinema ‘politico’ in senso stretto, ma le sue storie sono forti, i suoi personaggi sono scolpiti con feroce incisività e dicono molto di più di tanti compitini ideologici o messaggi preconfezionati politicamente corretti. E anche stavolta entra alla maniera sua nella vexata quaestio della riconversione a metà dell’area, richiamando l’attenzione su un tassello fondamentale congelato o in qualche caso rimosso della memoria storica della Napoli industriale ma anche dell’immaginario, questione riproposta dopo il recente incendio doloso di stampo camorristico di Città della Scienza.

Le riprese durate tre settimane sono terminate da poco e ora si entra nella fase della post-produzione. Sul lungomare di Bagnoli, quello che poi proseguendo arriva a Pozzuoli, il regista mostra il piccolo appartamento situato sulla strada difronte dove sono stati girati alcuni interni e dove sono sistemate le attrezzature tecniche e tutto ciò che serve per allestire un set con l’orgoglio del cineasta navigato, determinato, convinto ancora una volta che quando non si dispone di grandi finanziamenti come nel caso di Bagnoli jungle (si tratta di un film a very low budget prodotto da Gennaro Fasolino il suo fedele collaboratore, operatore e assistente per la Eskimo di Dario Formisano), il cinema lo si può fare con un’oculata spending review, che ciò che conta è sapere che cosa raccontare e avere una precisa idea di cinema senza gli sperperi inutili e una pletora di tecnici di tanto cinema nostrano.

Per parlare di Bagnoli hai optato per l’incontro-scontro tra tre personaggi di altrettante generazioni.

Si tratta di tre sguardi diversi: quello del protagonista più anziano, un ex operaio dell’ Italsider in pensione, appassionato e competente di calcio al punto che dà delle consulenze sul Napoli; quello di suo figlio che si arrangia con furti nelle auto e vagabonda per le trattorie; quello di un ragazzo che fa il garzone di una salumeria. I tre personaggi alla fine si ricompongono in un finale con una simbolica camminata dentro l’Italsider con l’anziano operaio sulla sedia a rotelle. Ho scelto tre interpreti come faccio di solito pensando soprattutto alle caratteristiche dei tre personaggi: Antonio Casagrande, grande attore di cinema e teatro, si è rivelato l’ideale per il ruolo del vecchio operaio in pensione, Luigi Attrice del quale dopo l’exploit di molti anni fa si erano perse le tracce per il ruolo del figlio e infine per il protagonista più piccolo Marco Grieco che conoscevo già molto bene avendolo diretto ne La guerra di Mario.

La storia potrebbe far pensare a un’operazione nostalgica.

Niente affatto. La presenza del giovane garzone in tal senso fuga ogni dubbio, il suo è uno sguardo sul futuro, lui è la speranza. È chiaro che la Bagnoli del passato era un’altra cosa, c’era un tessuto sociale rafforzato da una forte presenza operaia, c’era una speranza di progresso legata a una precisa realtà industriale. Oggi c’è lo sfascio, un degrado visibile e tangibile, basta guardare la spazzatura sulla spiaggia. Questo oggi è un territorio nelle mani della camorra. Ma durante le riprese ho fatto una full immersion, io e Fasolino armato di una videocamera molto leggera in HD abbiamo girato per 13-14 ore al giorno e siamo entrati nello spirito e nelle abitudini di chi ci vive. Abbiamo scoperto una ‘giungla’ appunto in senso positivo, un agglomerato senza regole e senza paletti, un’umanità che porta i segni di quello che è stata Bagnoli. Come sono indelebili i miei ricordi d’infanzia quando da Posillipo dove sono cresciuto e dove vivo tuttora, osservavo il fumo che usciva dall’acciaieria. L’ Italsider è un luogo potente. A un certo punto c’è una battuta del personaggio di Casagrande che difronte a un altoforno esclama: «Questo è meglio del Colosseo». Questo per sottolineare che molti napoletani non si rassegnano all’idea che dismissione significhi cancellazione di un luogo mitico dalla memoria e dall’immaginario. Il passato è forte, presente, fa parte della nostra storia ma abbiamo ancora qualche speranza.
A cosa è dovuta secondo te la mancata riconversione?

Il progetto è abortito perché c’è stata una classe politica anche di sinistra che ha in qualche modo introiettato il peggio di un ventennio berlusconiano. È mancata una vera e seria progettualità sull’area di Bagnoli, il progetto si è limitato alle cattedrali come Città della Scienza o a spot e slogan promozionali come ‘Bagnoli – Hollywood’ farneticando spesso sugli studios cinematografici.

Tu non hai mai girato un film in un contesto diverso da quello napoletano.
Per me è impensabile ambientare una storia in un altro luogo che non sia Napoli. E poi non posso stare lontano dal mare. In realtà è un problema antropologico. Come fai a raccontare un luogo e le persone che ci vivono se non lo conosci? Puoi raccontare l’epidermide, la superficie. Io invece ho l’esigenza di parlare del dietro, del fondo dei fatti. E questo richiede una conoscenza profonda di una realtà. Napoli è una città difficile, complessa, contraddittoria, molto autoreferenziale, ma non è una città globale o globalizzata e non è provinciale. Tutto ciò fa si che a un cineasta o a uno scrittore continui ad offrire materiale stimolante.

Come non hai mai abbandonato il (neo)realismo, lo sguardo crudo e secco sulla realtà.

]La realtà ti fa sentire il profumo delle persone e delle cose. Ci sono stati molti equivoci non solo per quel che riguarda il cinema sul Neorealismo, il Nuovo Realismo, il post- Realismo. Ci sono realismo e realtà anche in Calvino del quali recentemente ho riletto il magnifico Le città invisibili e in Marquez. Del resto Shakespeare diceva : «La realtà è più forte dell’immaginazione».

Qualche settimana fa ricorreva il ventennio della morte di Massimo Troisi. Cosa ne pensi di lui?
Massimo era un grande attore, una via di mezzo tra Eduardo e Totò. Ma a parte Ricomincio da tre, non ho amato molto il suo cinema da regista.
Anche tu avrai qualche sogno nel cassetto.
È un’espressione che non mi piace, riesco quasi sempre ha fare il film che voglio e a girare le storie che sento e poi chi mi conosce sa che non ho mai inseguito gli attori. Ma ho scritto due brevi soggetti per due attori completamente diversi, Alessandro Siani e Toni Servillo che ho già diretto in Luna rossa. Stavano per partire ma poi si sono bloccati entrambi.