Oday Irsheid, 22 anni, è stato ucciso ieri, raggiunto in pieno petto da un proiettile calibro 22 sparato da soldati israeliani a Ras al Jura. Dania Irsheid, 17 anni, era stata falciata il 25 ottobre da una raffica di mitra, sospettata di nascondere un coltello nella borsa. La scena è sempre quella di Hebron, stessa la famiglia dove una madre in 45 giorni ha perduto una figlia e un figlio. Un destino amaro che ieri ha riempito le pagine dei media elettronici palestinesi. I volti dei due ragazzi sono apparsi centinaia di volte su Facebook e Twitter.

Di Dania si racconta ancora tanto a Hebron. I palestinesi parlano di un’uccisione a sangue freddo, ripetono che non aveva alcuna intenzione ostile verso i soldati che avrebbero fatto fuoco senza pensarci due volte. Il suo caso è tra quelli presi in esame da Amnesty International che nelle settimane passate ha denunciato tante uccisioni “immotivate” di palestinesi da parte delle forze israeliane.

La vicenda di Oday e Dania Irsheid ha segnato una giornata che ha visto l’uccisione di altri due palestinesi e il ferimento di altri 70, 58 dei quali a Gaza. Omar al Hroub, 55 anni, secondo il portavoce militare, avrebbe cercato, nei pressi di Halhul (Hebron), di investire con la sua auto alcuni soldati che hanno reagito facendo fuoco.

Hebron è diventata l’epicentro dell’Intifada. Circa il 30 per cento dei circa 120 palestinesi morti dal 1 ottobre abitavano nella città cisgiordana o nei villaggi vicini. A Gaza Sami Madhi, 41 anni, è stato ucciso sul colpo da proiettili sparati dalle torrette di sorveglianza israeliane a est di al Burej, durante un corteo di protesta lungo le linee di confine. Ieri migliaia di palestinesi sono scesi in strada in varie città della Cisgiordania contro l’occupazione militare per l’anniversario della fondazione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (sinistra marxista) e, in anticipo di due giorni sulla data effettiva, di quella del movimento islamico Hamas.

Ormai lo pensano anche i comandi militari israeliani: la nuova Intifada, la terza, pur avendo dimensioni contenute rispetto alle prime due, non è una escalation di breve durata, come si era pensato in un primo momento, ed è destinata ad andare avanti nel tempo.

Una Intifada che mette in discussione l’occupazione che il governo israeliano in carica e quelli precedenti guidati dai leader della destra Netanyahu, Olmert e Sharon, credevano di poter normalizzare. Ma che erode anche la base di consenso dell’Autorità nazionale palestinese di Mahmud Abbas (Abu Mazen). Ieri il capo dei negoziatori dell’Anp, Saeb Erekat, dal Forum Med di Roma, ha detto senza giri di parole che le politiche di occupazione di Israele hanno innescato una forte reazione popolare nei Territori, con la conseguente delegittimazione politica anche dell’attuale dirigenza dell’Anp.

Il futuro, ha previsto Erekat, sarà «cupo» se la comunità internazionale non imporrà a Netanyahu la nascita dello Stato palestinese indipendente già riconosciuto da gran parte della comunità internazionale. Se l’Anp sarà ulteriormente indebolita da Israele, avverte, «al nostro posto arriverà l’estremismo dell’Isis e il conflitto, tenuto finora su binari politici, diventerà religioso: tra uno Stato ebraico e uno Stato islamico».