La mattinata di violenze che ha insanguinato Gerusalemme getta benzina sul fuoco del conflitto. Ieri, sull’onda degli attacchi nella Città Santa, il premier Netanyahu ha annunciato «misure aggressive»: esercito nei centri città, quartieri palestinesi di Gerusalemme Est circondati da forze di sicurezza, demolizione delle case dei responsabili di attacchi entro pochi giorni e ritiro del diritto alla residenza (i palestinesi di Gerusalemme non sono considerati cittadini israeliani) alla famiglia dell’aggressore. Misure, le ultime, vietate dal diritto internazionale perché forme di punizione collettiva e subito messe in pratica: ordini di demolizione sono stati spiccati contro le case di cinque palestinesi responsabili di attacchi nei giorni scorsi.

Ma Netanyahu guarda oltre: il prezzo degli attacchi non sarà pagato solo «dai terroristi», ma anche dai complici, «chi li incita». Ovvero l’Anp. Il premier punta sul presidente Abbas: «Basta dire bugie, basta istigare», ha tuonato prendendosela con una leadership debolissima, in silenzio da giorni, lontanissima dalla base.

Fuori intanto è guerra: ieri due palestinesi, Bilal Ghanen di 23 anni e Baha Elayyan di 22 sono entrati in un autobus israeliano nel quartiere di Armon Hanatziv a Gerusalemme. Brandendo un coltello e una pistola hanno ferito 10 israeliani e ucciso un uomo di 60 anni e una donna di 45. L’intervento della polizia li ha fermati: sono morti sotto i colpi degli agenti. Poco prima un 50enne palestinese, Alaa Abu Jamal, ha investito con l’auto il 60enne israeliano Yeshayahu Kirshavski, uccidendolo. Mentre tentava la fuga è stato colpito da una guardia privata ed è morto. Nel pomeriggio un quarto palestinese è stato ucciso a Betlemme dall’esercito israeliano: Moataz Zawahre, 27 anni, del campo profughi di Dheisheh è stato centrato al petto da una pallottola.

Netanyahu ha bisogno di mostrare il pugno di ferro, punzecchiato da ogni seggio della Knesset e dai colleghi di governo: il ministro della Pubblica Sicurezza Erdan ha proposto la semplificazione delle procedure per poter ottenere licenze di porto d’armi, così da militarizzare ulteriormente i civili, mentre la vice ministro degli Esteri Hotolevy ha chiesto il blocco dei fondi all’Anp, colpevole – secondo Tel Aviv – di aver ordito gli attacchi tanto da «aver perso il diritto di esistere».

Non tacciono le opposizioni: il leader laburista Herzog ha suggerito «un’aggressiva guerra militare, la chiusura del Monte del Tempio [la Spianata] e dei quartieri palestinesi di Gerusalemme»; e l’ex ministro degli Esteri Lieberman ha proposto la reintroduzione del governo militare nel Triangolo (zona abitata per lo più da palestinesi israeliani) e nella Città Santa, come fu nel decennio successivo al 1948.

Non sono mancati scontri in Cisgiordania e a Gaza: proteste a Betlemme, Qalandiya e nella Striscia dove 200 manifestanti hanno marciato verso il valico di Erez. I soldati hanno aperto il fuoco ferendone 5. Nelle stesse ore 20mila palestinesi scendevano in piazza a Sakhnin, città araba in Israele, a difesa di al-Aqsa e Gerusalemme.

A preoccupare è anche la reazione della base israeliana, preda di una paranoia esplosiva. Ieri si sono ripetute aggressioni contro palestinesi, da Haifa a Tel Aviv, con gruppi di israeliani che convinti di aver di fronte potenziali aggressori hanno picchiato per primi. Ieri a Kiryat Ata un israeliano ebreo è stato ferito in un accoltellamento perpetrato da un altro israeliano, convinto che la sua vittima fosse un palestinese. Una caccia alle streghe giustificata dalla paura che il governo ha coltivato. Si gira armati pronti a farsi “giustizia” preventiva: aggressioni nei villaggi palestinesi in Cisgiordania e tentativi di linciaggio in Israele.

Un’atmosfera che ha spinto gruppi palestinesi a pubblicare vademecum per evitare di essere aggrediti: non mettete le mani in tasca, fermatevi subito se ordinato da agenti, non indossate giacche.

Nel silenzio assordante della politica, il popolo palestinese è solo, incapace di fronteggiare la disperazione di chi si fa ammazzare pur di compiere un accoltellamento. E se la Cisgiordania reagisce come fa da anni, con lancio di pietre e manifestazioni, è nella Città Santa che avvengono gli attacchi individuali, a Tel Aviv: una moltitudine di persone senza identità, mai trattate come israeliane e ormai dimenticate dalla leadership palestinese.