«Dove ci troviamo?» – chiede uno di loro.
«Sì, dove ci troviamo?» – insiste l’amico.
«Non sanno neanche dove sono!» – esclama uno di noi, sorpreso.
«Io vengo dalla Siria, sono scappato dall’Isis».
«Io dall’Iraq, dal Kurdistan».

«Dove ci troviamo?», ripete ancora, più tardi, una ragazza afghana di dodici anni. È scappata dai talebani, ha lavorato un anno in Turchia con la madre, ora arrivano insieme alle porte d’Europa. Nessun padre, almeno non qui e non ora.

Non sono in pochi a non sapere nemmeno come si chiama questo luogo. Siamo – noi e loro – alla stazione ferroviaria di Seghedino (Szegede), Ungheria, come alcuni hanno scoperto grazie al GPS dei loro smartphone, gli stessi telefoni che sono serviti da guida per passare alla cieca l’ultima frontiera, tra la Serbia e l’Ungheria. Con i sistemi di navigazione sono riusciti a localizzare le coordinate trasmesse dai trafficanti in uno degli ultimi sms – segnali verso il futuro. E il futuro, che fino a questo punto è già costato centinaia o migliaia di euro, non è ancora qui, in questa stazione della periferia europea in cui trascorriamo insieme le prime ore dell’alba.

Ma sappiamo davvero dove ci troviamo, in questo selfie della “storia del presente”, mentre una nuova cortina di ferro lunga 175 chilometri sembra poter nascere nel cuore d’Europa? Le 4 e 36 minuti: risuona l’altoparlante: «In partenza, dal binario 1, treno con destinazione…».
«Dove ci troviamo, e dove stiamo andando?». «E noi?».

Il senso della vita ingabbiato

«Il senso della vita è scavalcare frontiere», diceva il reporter-viaggiatore polacco Ryszard Kapuscinski, frase che risuona amplificata quando la frontiera converge su tre punti. Qui, dove Ungheria, Serbia e Romania si toccano, al Triplex Confinium, sorgerà l’estremità orientale della struttura di filo spinato, di tre o quattro metri d’altezza, la cui costruzione è stata annunciata dalle autorità ungheresi a fine primavera 2015, come misura per arrestare quella che minaccia di diventare la più grande onda migratoria verso l’Unione europea degli ultimi quarant’anni. I due principali punti d’ingresso: l’Italia meridionale e – appunto – il sud dell’Ungheria, con Grecia o Bulgaria, e poi Macedonia e Serbia come paesi di transito.

Questo “Occidente Express” attraverso i Balcani è già diventato la principale via d’accesso all’Unione europea, ancor più movimentata delle vie marittime del Mediterraneo fino alle spiagge di Lampedusa.

E per fermare i migranti, innalzano reti: il tracciato previsto dalle autorità di Budapest per la barriera si estende da qui, punto di partenza del nostro viaggio, fino a un’altra frontiera tripla (tra Ungheria, Serbia e Croazia), a gomito su un braccio del Danubio, nostra destinazione finale.

Alcuni lo chiamano muro, altri dicono che è soltanto una «recinzione»: e così viene definita ufficialmente. Non c’è ancora bisogno di dargli un nome definitivo, finché nel paesaggio l’orizzonte rimane vergine e lo sguardo sorvola la pianura sconfinata, come un’aquila che fluttua sopra a una vecchia e ormai abbandonata torre di controllo dell’esercito jugoslavo. La gigantesca torre resiste alla ruggine del tempo, come simbolo archeologico di un’antica frattura che non ha mai smesso di essere frontiera e che ora lo diventerà ancora di più.

È stata la frontiera di Tito, ed è stata anche la frontiera di Kádár e di Mosca, e ora sarà la frontiera di Orbán. È stata la frontiera non allineata del socialismo «dal volto umano» jugoslavo e ora sarà la neo-frontiera del capitalismo, anch’esso «dal volto umano», di un’Unione europea che, più o meno imbellettata, sta incorporando i volti dei neo-nazionalismi che vincono alle urne da queste parti. Camaleonti all’interno del paesaggio retorico, gli «ismi» si toccano sempre, sfumano le frontiere, mordono la coda gli uni agli altri.

Uno storico pic-nic paneuropeo

Aquile qui, che attraversano i cieli, gabbiani là nel Mediterraneo sulla Sicilia e su Lampedusa. Anche qui ci sono state isole un tempo, in un’altra era geologica, prima dell’Uomo, quando tutto quest’infinito, ora verde come il mais, ora biondo come il grano, era il Mare di Pannonia. Da un campo di girasoli, una lepre salta all’improvviso davanti alla nostra auto. Neanche un poliziotto, neanche un rifugiato, soltanto noi. «Qui si potrebbe fare un bel pic-nic!». A parlare è stata Móni Bense, professoressa universitaria e traduttrice, che è scesa da Budapest fino alla Terra Bassa per accompagnarmi in questo percorso, mentre io salivo da Belgrado alla volta della Vojvodina.

La Terra Bassa ungherese e la Vojvodina serba si mescolano, siamesi nella geografia, sorelle su una mappa umana che la storia ha tagliato varie volte. Anche se molto più piccolo della torre di Tito, il segno della tripla frontiera è qui, in questo campo sterminato, e potrebbe fare da rendez-vous per il pic-nic che voleva fare Móni. Si sarebbe stesa la tovaglia lì… in piena terra di nessuno. È in tavola per tutti, goulash per favore!

Lei non c’era, ma le sarebbe piaciuto partecipare allo storico pic-nic del 19 agosto 1989, vicino alla frontiera austro-ungarica tra Sankt Margarethen im Burgenland e Sopronkhida, a Sopronpuszta, dove ungheresi e austriaci hanno organizzato l’incontro che il giornale francese Le Monde ha definito «il pic-nic che ha fatto oscillare la storia». Il primo luogo, in tutta l’Europa, in cui qualche settimana prima la cortina di ferro venne simbolicamente cancellata era lì vicino, ma in quel giorno d’estate, nel corso del «pic-nic paneuropeo», centinaia di tedeschi dell’est (sarebbero stati decine di migliaia nei mesi successivi) attraversarono il confine verso l’Austria, per poi rincontrarsi con le proprie famiglie in quella che allora era la Germania Occidentale.

Non riuscire più a ricordare

Il muro che era cominciato a cadere da quelle parti sarebbe crollato a Berlino soltanto tre mesi dopo, e con lui il resto del recinto di ferro che, in mezzo all’Europa, divideva il mondo. Móni allora era un’adolescente, e forse cresceva ridendo di Gusztáv, il mitico cartone animato degli anni Sessanta e Settanta, prodotto dal Pannónia Filmstúdió, in pieno «comunismo goulash». Gusztáv era venerato in Ungheria (ma anche fuori dalla Pannonia, in Jugoslavia e non solo) dove c’è chi ha visto e rivisto all’infinito lo stesso episodio, cinque o sei minuti ripetuti fino a sfinirsi dalle risate.

Ma su altri schermi, i ricordi sembrano essere più sfumati: «La storia si ripete così rapidamente che la generazione che ha vissuto i suoi episodi più tragici qui è ancora viva, ma pare non riuscire più a ricordare», dice rassegnata Móni, lamentandosi dell’amnesia parziale di molti suoi compatrioti, immemori dell’eterno status di migranti e rifugiati, se non di prima, di seconda o terza generazione, che ha accompagnato il popolo ungherese ritornando indietro solo di un secolo, fino al trattato di pace di Trianon.

Forse una rilettura delle opere dello psicanalista ungherese Sándor Ferenczi, contemporaneo di quegli eventi, potrebbe aiutarci a capire come sia possibile iscrivere un vuoto sui traumi vissuti, un’apparente paralisi del pensiero, in grado di lasciare l’individuo, quindi anche il cittadino e l’elettore, più indifeso. In effetti, se la storia si ripete in qualche modo, Ferenczi ci aveva già spiegato il perché.

È probabile che anche Robert Molnár sia cresciuto con le peripezie di Gusztáv. Scommetto che sarebbe piaciuto anche a lui partecipare a quel «pic-nic paneuropeo» dell’agosto ’89. In quell’estate che ha preceduto l’«Autunno dei Popoli», Molnár aveva 18 anni, fatti a Kübekháza, la cittadina che dista poco più di un chilometro dal Triplex Confinium, di cui oggi è il sindaco. Quando lasciamo la linea di confine e tracciamo l’azimut, attraverso i campi, diretti al centro del villaggio, sappiamo già che non lo incontreremo, né a casa, né in Comune, né alla kocsma, il bar-taverna locale. È all’estero da qualche giorno, per lavoro, ma nonostante tutto conversa a lungo con noi al telefono.

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Una pausa nel cammino lungo la strada che porta a Asotthalom, appena oltre il confine tra Serbia e Ungheria (LaPresse)

Non è facile trovare, in Ungheria, soprattutto nel panorama politico di centro-destra, una voce così diretta contro la costruzione della nuova barriera. «Conoscendo la Storia – dice lui – in passato, quando un Paese ha deciso di costruire un recinto o un muro, come ad Auschwitz-Birkenau, a Berlino o nel resto della frontiera del blocco comunista, è sempre diventata una piaga per chi l’ha costruito». Per Molnár, «l’Ungheria è già un Paese isolato a livello intellettuale e psicologico. Questo avrà come conseguenza la sua ghettizzazione. L’Ungheria si circonchiude, il che significa che non esiste né uscita né entrata, né da fuori né da dentro. Siamo in mezzo all’Europa, se non riusciamo a navigare in acque pacifiche, ne deriva che lo spazio d’azione degli ungheresi andrà riducendosi», finché «le persone non perderanno la speranza e fuggiranno dal Paese». Più che trasformarsi in un’isola, «l’Ungheria si ghettizzerà», sottolinea quest’uomo politico che, fino al 2002, era stato deputato a Budapest per lo Szerz (Partito Indipendente dei Piccoli Agricoltori e Cittadini). In quel periodo venne espulso dal partito e uscì dal Parlamento. È tornato nella terra in cui è cresciuto e da allora, come indipendente, dirige i destini di questo municipio frontaliero in cui vivono circa 1500 persone.

Al Triplex Confinium, un orecchio acuto riesce forse a sentire tre campane, a seconda dalla rosa dei venti: quella della chiesa di Kübekháza, qui in Ungheria, quella di Beba Veche, in Romania, o quella di Rabe, in Serbia, tre paesini che, quasi equidistanti, formano questo triangolo (si riuniscono tutti una volta all’anno, per una festa transfrontaliera). Róbert Molnár ci tiene a dichiararsi cristiano praticante per ribadire che «c’è bisogno di prendersi cura dei forestieri», il messaggio di Stefano I, re d’Ungheria, poi Santo Stefano per i credenti. «Lo dice la Bibbia: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso», ricorda, e subito profetizza che «la cattiveria ci verrà restituita. Se non vogliamo essere maltrattati, non possiamo maltrattare gli altri. Perché come dice un’espressione che ci ricorda un mio collega, tu lecchi il gelato, ma anche lui ti può leccare».

Nella kocsma della via principale, le birre e le pálinke sono molto più popolari dei gelati. Un uomo, appoggiato all’entrata, si tiene in equilibrio con una birra per ogni mano e continua a bere, ora una, ora l’altra. I tavolini della taverna si estendono tra la casa e la strada, come succede per ogni casa, per ogni strada, nella Terra Bassa o nella Vojvodina. Di fronte a ogni casa, questa fascia che sembra un giardino di cinque o dieci metri, a volte quindici, crea una bella transizione, un’armonia, invece di una frontiera brusca, tra il legno della porta e l’asfalto della strada – una terra di nessuno che tutti coltivano come se fosse il proprio giardino, una terra di tutti. Quel che nasce o è piantato in questa fascia è pubblico; anzi, nel mondo rurale, sembra impossibile pensare a un esempio migliore di spazio pubblico. Lì di fianco, un bambino, sorretto dalle braccia del padre, coglie ciliegie.

Un’immagine quasi uguale ci verrà descritta, in un’altra kocsma, in un altro paesino, dalla padrona del locale. Si era detta testimone «dell’allegria di un gruppo di rifugiati che raccoglieva frutta da un albero». Qui all’entrata della kocsma di Kübekháza, la padrona racconta un altro episodio, qualcosa di simile, che ha visto in televisione. Anzi, fino alla nostra visita, alla fine di giugno, i rifugiati passavano davvero soltanto in televisione e lei stessa non aveva ancora visto nessuno transitare di lì. L’unico problema concreto di cui lei aveva sentito parlare era il seguente: un rifugiato aveva rubato dei pomodori a un agricoltore che si lamentava del fatto, nel reportage televisivo, come se fosse la fine del mondo. «Poveri», si sente una voce sullo sfondo, con tono empatico, «avevano fame, nella stessa situazione, ognuno di noi farebbe la stessa cosa».

Kübekháza non è ancora una nuova Lampedusa, alla fine della rotta balcanica dei migranti dell’est e del sud, ma sia il sindaco della città, sia la signora della kocsma intuiscono come finirà. Entrambi concordano, quando dicono che, con la barriera frontaliera che sta per iniziare nel Triplex Confinium, a poco più di un chilometro dalla città, «è chiaro che i rifugiati faranno il giro dalla Romania e poi passeranno nuovamente di qui». A questa deduzione, ovvia per chi guarda la cartina, ha risposto Péter Szijjártó, il giovane ministro degli Esteri e dell’Investimento Estero, affermando a vari media che «in tutte le sezioni di frontiera su cui non esiste nessuna altra forma efficace ad impedire l’immigrazione illegale [oltre alla linea di divisione tra la Serbia e l’Ungheria], verrà utilizzato lo strumento sicuro della chiusura della frontiera», ovvero, il prolungamento del muro-recinto.

Finché il filo spinato non gli taglia l’orizzonte, Robert Molnár, il politico al governo di questa cittadina frontaliera, sostiene che tocca «alla ricca Europa occidentale trovare unanimemente una risposta e che non si può dare la responsabilità solo all’Ungheria, perché questa è una catastrofe umanitaria che riguarda il mondo intero”. Ma poi torna a guardare verso l’interno, quando parla del muro come di una decisione del governo nell’interesse dello stesso partito che forma l’esecutivo, il Fidesz (della destra populista; 44,5% alle legislative del 2014).

Uno spot nazionalista

Mólnar classifica la decisione come un «mero atto di campagna politica interna», per cui lo Stato dovrà sborsare più di 20 milioni di euro. La struttura sarebbe così un enorme poster di propaganda nazionalista, con i suoi quattro metri d’altezza e 175 chilometri di lunghezza. Continuando a passare i fatti al setaccio, l’ex-deputato conclude che questa misura «non è contro l’immigrazione, ma serve solo a Viktor Orbán e al Fidesz per togliere vento alle vele dello Jobbik (considerato un partito di estrema destra; 20,5% alle legislative 2014), perché ci sono già dei radar termici installati su tutta la frontiera e il 98% dei rifugiati vengono presi».

«Dove ci troviamo?». In un giardino in cui Orbán semina muri, che è anche un giardino dell’Europa. Qui, ai tavolini dellakocsma, il giorno scorre lentamente come il Tisza o il Danubio, come le due birre nelle mani di quell’uomo di Kübekháza. Sull’albero di fronte a noi, il bambino ha lasciato molti grappoli di ciliegie per il primo rifugiato che passerà la frontiera in questo paesino tranquillo. Domani o più avanti, non tarderanno a passare di qui. Forse Sharbat, forse Mohammed, gente che incontreremo alla stazione di Seghedino una notte di questo viaggio, o forse Rafiq, che aspetta ancora, in una fabbrica abbandonata di Subotica, senza passaporto, che un trafficante gli dia le coordinate per continuare il viaggio.

Nel frattempo, nella memoria della taverna, rimbomba la voce di quell’agricoltore ungherese che si lamenta in televisione che «loro» gli hanno «rubato i pomodori».

«Loro» sono quelli che sono scappati dalla fine del mondo sperando di trovare un posto nell’eden-fortezza dell’Unione europea. In ungherese, in serbo e in croato (i due lati della lingua serbo-croata), pomodoro e paradiso sono parole sorelle, con la stessa radice, che indica sia il frutto-verdura che il luogo dell’idillio:paradiscom/paradiscom, paradajz/raj, rajica/raj. Ci uscirebbe un bell’episiodio di Gusztáv, penso io, Gusztáv trasformato in rifugiato-ladro di paradisi, un selfie-caricatura di cui l’Ungheria e l’Europa probabilmente hanno bisogno.

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Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso
traduzione dal portoghese di Serena Cacchioli
(1 – continua)