All’inizio c’è san Girolamo, chiuso nel suo eremo fra i libri e le pareti dello studio o le rocce cavernose, immerse nella quiete incomunicabile della natura. È il primo passo verso quella solitudine dello sguardo e della mente che conduce nei campi elisi della filosofia, nei luoghi ascetici del sapere.
Così, fra le «macchine del pensiero» raccolte nelle sale del bellissimo palazzo di Ca’ Corner della Regina, sede della Fondazione Prada a Venezia, viene inserito anche il padre della chiesa, nume tutelare di quel ritiro contemplativo che crea mondi alternativi a quelli vissuti quotidianamente. Lo vediamo leggere assorto e scrivere, stagliarsi sullo sfondo in bianco e nero nella celebre incisione di Dürer. Le sue sono parole e interrogativi che si generano nella totale mancanza di rumore e distrazioni, nella necessità ribadita di una uscita dal mondo. Non può mancare, inoltre, fra i punti cardinali di una geografia sentimentale del pensiero che s’immerge in se stesso Henry David Thoreau con quel suo Walden ovvero Vita nei boschi (1864), vademecum di sognatori in grado di attenersi solo ai «fatti essenziali». E in una rotazione temporale che funziona come sliding doors, ci sono pure le pietre dello spirito, le Gongshi, miniature che simulavano le montagne e che gli eruditi cinesi, almeno mille anni fa, tenevano vicine, per trarre ispirazione dal loro influsso benefico.

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La mostra immaginata da Dieter Roelstraete in laguna (visitabile fino al 25 novembre), che si dispiega in tanti nuclei di silenzio, fra rifugi e capanne, fotografie di interni, libri e reinterpretazioni di «stanze» della soggettività, procede di pari passo con la Biennale di architettura, soffermandosi però sulle strutture meno spettacolari – quelle baite, piccole casette immerse nella natura o edifici spogli dell’esilio che sono stati i luoghi di elezione di tre filosofi del Novecento: Theodor W. Adorno (1903 -1969), Ludwig Wittgenstein (1889 -1951) e Martin Heidegger (1889 – 1976).
Se il tema della kermesse ai Giardini e Arsenale è Freespace, l’intercettazione di spazi di frontiera («invita a riesaminare il nostro modo di pensare, stimolando nuovi modi di vedere il mondo e di inventare soluzioni in cui l’architettura provvede al benessere e alla dignità di ogni abitante di questo fragile pianeta», hanno affermato le due curatrici Yvonne Farrell e Shelley McNamara), al centro dell’esposizione di Palazzo Ca’ Corner rintracciamo invece il concetto di hut. Non come rifugio temporaneo, struttura precaria che offre ricovero alla fuga – molto rivisitata in questi anni di guerre e migrazioni umane -, ma come dimora abitata per scelta, regno incontrastato per l’esercizio della libera meditazione.

Martin Heidegger, per esempio, se ne stava arroccato nel bel mezzo della Foresta nera (la sua baita di Todtnauberg è ancora in piedi, inaccessibile proprietà della famiglia, ma ugualmente mèta di pellegrinaggio) cucendo le sue idee nelle trame di Essere e Tempo (1927). Ludwig Wittgenstein – per fare spazio e luce al suo pensiero – prediligeva il freddo nord norvegese barricandosi a Skjolden, tra i fiordi, in una poverissima capanna di soli sette metri per otto. Non resta oggi molto di quella costruzione nera, da fiaba gotica, ma a riportarla in vita con tutto il fascino della sua impervia figura è l’artista Mark Riley (che non ha dimenticato di rendere omaggio pure alla Cabin of Philosophy di Rousseau). Nel suo diorama, la rende impenetrabile, addossandola alla montagna dentro la selva, rispettando il destino di intimità di una roccaforte, poi abbandonata, che vide germogliare il Tractatus Logico-Philosophicus (1921).

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A testimoniare quanto fosse importante l’architettura del «riparo» per oliare l’esistenza – e per contenere il proprio modo di essere all’interno di mura «amichevoli», che rispecchiassero una possibile identità – c’è anche la villa modernista di Margarethe, che il fratello Ludwig Wittgenstein ideò per lei a Vienna a metà degli anni Venti. Unico esempio di progettualità del pensatore che non disdegnò neanche la scultura, regalandoci una stupenda testa di fanciulla (qui esposta). In mostra a Venezia, per chi è in vena di feticci, c’è anche il suo bastone da passeggio, mentre una foto lo ritrae scivolare sul lago Eidsvatn, in una semplice barchetta a remi. A indagare quella volontaria «astrazione» dal mondo di Wittgenstein è Marianne Bredesen, con Siri Hjorth e Makonnen Kjelaas: l’opera dai toni un po’ horror è il modellino per un monumento – una mano con tanto di bocca che intona musiche varie e anche la sonata per violino di Bach trascritta per pianoforte dal fratello Paul – che avrebbe dovuto stagliarsi davanti la baita norvegese.

La costellazione planetaria delle Machines à penser prevede anche la cosiddetta «capanna di Adorno», che esistesolo in un titolo da leggenda, come prodotto di finzione: è l’opera Adorno Hut (1986-87) dello scozzese Ian Hamilton Finlay, a sua volta un vero eremita, scultore e poeta in cerca di fughe dalla «civiltà di massa» e architetto di paesaggi. Il suo è un readymade di materiali diversi (legno e acciaio) dedicato al filosofo di Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa (quella «vita che non vive», come scriveva dall’esilio americano cui lo costrinse l’avvento del nazismo in Germania). Alla fine, si esce dalla mostra seguendo la suggestione di Seneca riportata nel bel libro-catalogo: «La filosofia insegnò a costruire case agli uomini dispersi, che trovavano il loro rifugio entro capanne, o in anfratti alla base delle rupi, o nei tronchi cavi degli alberi».