Abbiamo incontrato per la prima volta Mårten Spångberg una decina di anni fa, quando lo intervistammo per le pagine di Nero. Il suo discorso sulla danza, per noi che ne sapevamo poco, ci apparve subito illuminante. Ecco, illuminante è una parola scomoda da usare oggi, soprattutto in relazione a Spångberg e al nuovo lavoro che il coreografo ha portato in anteprima in questi giorni a Bologna per il Live Arts Week V. Natten, che in svedese significa «notte», sembra essere non tanto il titolo dell’opera, quanto quello di un contenitore invisibile, buio, un involucro concettuale che contiene un mondo fatto di forme indefinite e identità mancate entro cui l’opera accade. Un contenitore in tensione, sempre predisposto a smettere di contenere, all’interno del quale si definisce una diversa forma di esistenza delle cose. Contraddizione, indeterminatezza, possibilità, scomparsa, sono eventi di quel modo di concepire la coreografia, proprio di Spångberg, che coincide con la ricerca incessante di un’esperienza totale, unica, inafferrabile. Pochi giorni prima della premiere del suo nuovo lavoro, all’interno del Live Arts Week V, organizzato da Xing, abbiamo rivolto a Mårten tre semplici domande.
«Natten», il tuo ultimo lavoro, sembra essere influenzato da una costellazione di pensieri e idee nuove rispetto al passato: realismo speculativo, letteratura dell’orrore, pessimismo, vitalismo oscuro, etc. Come lo spiegheresti, per esempio, a Kendrick Lamar?
Gli direi: Natten è come Untitled Unmastered (l’ultimo disco di K. Lamar, ndr), ma strumentale e in loop per sei ore e mezzo. Avete sentito il nuovo album? È incredibile, mi piace moltissimo. Il mio lavoro è una specie di viaggio nel buio, in quel vuoto portato dalla notte, in cui coesistono paura e gioia. È a suo modo un resistere romantico, ma quel vuoto è pieno, pieno della sua vuotezza. A me interessa la capacità della danza di produrre, attraverso il corpo, un senso eccessivo di anonimato. La notte è il momento in cui l’identità perde di significato, in cui il tempo si dissolve e le posizioni fluttuano. A mio parere, questo è il luogo della danza. La sensazione della danza. Qualcuno potrebbe anche dire che la notte è un momento «speculativo», per la sua indeterminatezza. O, per parafrasare Bruce Nauman, che la notte rivela una verità mistica. Ovviamente, questa verità mistica può essere portata avanti solamente da un individuo senza identità. La notte porta con sé solo un vago senso di causalità, e la sua teleologia è del tutto permeabile.
In questi ultimi vent’anni hai presentato i tuoi lavori in contesti molti diversi – festival di danza, teatri, musei, gallerie private, ecc. – confrontandoti quindi con pubblici differenti e in continuo cambiamento. Rispetto a quando hai iniziato, com’è cambiato il tuo pubblico?
Credo che sicuramente sia invecchiato di qualche anno. In effetti, il pubblico oggi è più giovane. Anche se cerco sempre di produrre lavori per un pubblico più vecchio di me, alla fine devo ammettere che in media le persone che mi seguono oggi hanno vent’anni meno di me. Sul serio, il mio spettatore ideale ha cinquantacinque anni ed è donna. Forse sono più io che mi sono evoluto. Sono decisamente più generoso e aperto allo spettatore. I miei ultimi lavori, e in particolare Natten, sono un invito al singolo spettatore a stare da solo con sé stesso, ad avere il permesso di essere anonimo. Mi piace pensare che si tratti di un lasso di tempo durante il quale uno perde la propria privacy. Natten fa riferimento a quel momento, necessario ed importante, nel quale si diventa pubblico. Per me è un momento di intensa vulnerabilità e allo stesso tempo di grande forza. Quando abbandoni la tua privacy, puoi fare esperienza di questa gioia senza fine, che consiste nel diventare un uno nel tutto. Quando ero bambino andavo spesso con mia mamma e mia nonna in spiaggia. Sapete, quando è novembre e il sole sta per tramontare. Ci sedevamo e vedevamo le onde sparire nel buio. Mi piace molto il momento in cui un’immagine sfuma ma il suono è ancora lì. Quando l’unica cosa che senti sono le onde, ti rendi conto che sono così presenti proprio per la loro assenza.
Hai sempre fatto riferimento al tuo lavoro come «coreografia» e non come «performance», tracciando così una netta distinzione tra le due. La coreografia è uno strumento con cui organizzi il tempo e lo spazio, mentre la performance ha a che fare con l’intrattenimento. Ci puoi brevemente spiegare meglio cosa intendi?
Probabilmente ho pubblicato più cose non-sense io di chiunque altro nel mondo della danza, ma sì, ho sempre fatto una netta distinzione tra coreografia e danza, e tra danza e performance. Proverò a spiegarlo in poche e astratte parole: la coreografia è una questione di organizzazione, di struttura. Una delle sue possibili espressioni è la danza, ma anche una partitura o la semplice memoria possono esprimere una coreografia. La danza è un’espressione all’interno del mondo e in quanto tale, per poter operare e avere stabilità, ha bisogno di applicarsi ad una qualche struttura. La danza è l’espressione di una forma che è indipendente dal soggetto o dalla soggettività. La performance è un «display» di identità, laddove la danza è la performance della forma. Si potrebbe dire che la performance è incastrata nella possibilità; è piena di possibilità. Mentre la danza, intesa come performance della forma, è vuota e può quindi trasgredire la possibilità in favore della potenzialità. In altre parole, la performance si associa alla probabilità e alla determinatezza, mentre la danza ha a che fare con la contingenza e l’indeterminatezza.