Al-Sisi ha blindato Il Cairo. Giovedì il timore di manifestazioni nel terzo anniversario del golpe si è tradotto nella chiusura di Tahrir, piazza simbolo della rivoluzione del 2011. A celebrare è solo il presidente che ha autorizzato a scendere in piazza solo i suoi sostenitori e in tv ha incensato l’esercito che depose il predecessore Morsi.

Da allora la spinta popolare catalizzata dal movimento Tamarod, che nel 2013 permise ai militari di strappare il potere ai Fratelli Musulmani, non esiste più: la barbara violenza della repressione di Stato, cominciata già un mese dopo con massacri di massa di islamisti, ha annichilito il paese per due anni. Fino a primavera: le proteste sono riesplose. Con quali possibili effetti? Ne abbiamo discusso con Tamer Wageeh, direttore dell’Economic and Social Justice Unit dell’associazione Egyptian Initiative for Personal Rights.

In un’analisi su Mada Masr lei parla delle manifestazioni di aprile come del primo passo verso la nascita di una nuova opposizione. Che potenzialità ha?
La contro-rivoluzione del luglio 2013 ha vinto grazie alla mobilitazione di milioni di persone: ha sconfitto la rivoluzione con il sostegno popolare. L’uso della forza è venuto dopo, prima ha sfruttato la paura della Fratellanza e della rivoluzione stessa. Ma nell’ultimo anno e mezzo sono apparse crepe nell’apparentemente granitico sostegno popolare e nell’alleanza politica tra forze contro-rivoluzionarie e apparati dello Stato. Si sono riaperti spazi per la critica, non perché lo Stato sia diventato più indulgente, ma perché sempre più persone hanno ricominciato ad ascoltare le voci alternative, scettiche del regime. Ad aprile questa critica è scesa in piazza, un passo importante. Non va vista come una vittoria definitiva delle opposizioni, il regime ha subito reagito e il movimento si è temporaneamente paralizzato. Ma la sua forza resta: ci stiamo muovendo in avanti, anche se a zigzag.

Da chi è formato l’attuale movimento di opposizione?
La natura dell’opposizione è la questione centrale, due livelli intrecciati ma allo stesso tempo separati: attivisti e politici da una parte, masse popolari dall’altra. I primi fanno parte del ‘movimento politico cosciente’, formato da tre strati: il primo è quello dei rivoluzionari ‘hard-core’, i critici del regime dalla prima ora. Sebbene alcuni furono inizialmente entusiasti del golpe del 2013, sono le persone ‘di gennaio’, quelle della rivoluzione di Tahrir. Il secondo strato sono i nuovi ‘gennaioli’, giovani che a causa dell’età non parteciparono alla rivolta del 2011 ma si sono uniti negli anni successivi: una categoria importante che dà freschezza alla rivoluzione, a decine di migliaia di persone che in tutto l’Egitto resistono guidati dai sogni di gennaio. Il terzo è composto dai vecchi politici di professione, i partiti di opposizione che appoggiarono in gran parte il golpe e solo dopo hanno espresso dissenso per le sue atrocità.

Questo movimento si è riattivato con la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita, ma è politicamente frammentato. I rivoluzionari non si fidano delle manovre dei politici; i politici giudicano i rivoluzionari immaturi. Inoltre c’è un problema con gli islamisti: i Fratelli Musulmani sono stati attivi fin dal primo giorno del golpe, eppure il nuovo movimento non ha un atteggiamento chiaro nei loro confronti. C’è disprezzo. Ma gli islamisti, nonostante isolamento popolare, attacchi dello Stato e dissenso interno, sono più forti di certi movimenti laici.

E il secondo livello, le masse popolari? Qual è il loro ruolo?
La base è formata da settori della popolazione stanchi dello status quo a causa dell’aumento dei prezzi e la crisi economica. Operai e dipendenti pubblici, studenti e venditori ambulanti, ma anche imprenditori, non sopportano più questa situazione. Ma il vecchio e il nuovo movimento di opposizione sono troppo autoreferenziali e poco interessati a costruire legami con le masse. A volte arrivano al punto di ‘odiare’ le masse perché avrebbero tradito la rivoluzione. I rivoluzionari giungono dalla classe medio-bassa: grandi ideali ma scarsa maturità ideologica.

Perché finora al-Sisi ha agito al sicuro? La protesta di aprile è stata la prima dall’estate 2014, quando fu eletto presidente
A causa del supporto popolare di cui godeva all’inizio e dell’inerzia dei sentimenti contro-rivoluzionari di settori della popolazione stanchi dell’instabilità. A causa del potere dell’apparato militare e del sostegno regionale, del Golfo.

Lei definisce il regime di al-Sisi militarismo neoliberale. È oggi in pericolo?
La classe di governo egiziana ci ha fatto ingurgitare neoliberismo con la forza per 40 anni, ma è un progetto fallito. Ora sta mutando, si sta militarizzando perché politicamente guidato da una dittatura militare e economicamente basato sulle forze armate, primo capitalista del paese. Come la Russia di Putin. I centri capitalisti combaciano con i centri della sicurezza e danno vita ad uno Stato oligarchico il cui principale interesse è rubare e corrompere. La forma di distribuzione del potere, in mano a esercito e servizi, non solo spoglia lo Stato del vitale ruolo di rappresentante degli interessi dell’intera società, trasferendolo su territori feudali e litigiosi, ma riflette anche la mancanza di visione strategica dell’élite governativa.

La nuova opposizione saprà organizzarsi come nel 2011?
Un fattore fa da ostacolo: il ricordo degli anni della rivoluzione è vivo. La gente si chiede: perché muoverci ancora? Cosa sarà diverso stavolta? Per rispondere positivamente a questa domanda, dovrebbe comparire un’alternativa reale che oggi manca. L’unica opzione sono sommosse che non hanno la capacità di sviluppare un movimento rivoluzionario.

La protesta della stampa può fare da catalizzatore?
Sicuramente. Lo Stato assedia il movimento e il movimento è in declino. Ma le iniziative dei sindacati – medici, giornalisti, ingegneri – sono catalizzatori della lotta. Anche se sembra che stiano fallendo, sono esplosioni continue che spingeranno al cambiamento.