È un quasi trentenne scrittore per dono, e non per volontà come molti, che ci parla dalle pagine di Essere giovani non è una scusa (Castelvecchi, pp. 212, euro 16,50): un romanzo bellissimo e potente di Danilo Lampis, in cui denuncia sociale, passione politica e letteraria si fondono in un intreccio perfettamente riuscito, ricco di invenzioni, paesaggi, scene, dialoghi, saldamente tenuto dall’autore senza mai un punto fiacco, un calo di tono.

UN RACCONTO che è un ritorno alla realtà – e a una realtà collettiva – ricostruita dall’interno, da chi conosce nelle pieghe lo snodo epocale intervenuto nei rapporti di dominio e nelle forme dell’alienazione nel passaggio dalla dimensione «fordista» a quella «post fordista» del lavoro: l’irruzione di una traiettoria precaria e intermittente che attraversa il lavoro in tutte le sue stratificazioni, senza dar luogo a profili sociali definiti (Danilo Lampis è stato sul primo fronte nella vertenza di Riders Union Bologna).

PIÙ CHE ALLA LETTERATURA «generazionale», questo romanzo va ascritto alla tradizione narrativa delle rappresentazioni del lavoro, filone che annovera pietre miliari come Memoriale e Le mosche del capitale di Paolo Volponi e giunge sino a Mammut dello scrittore-operaio Antonio Pennacchi. È intorno al centro traumatico della forza lavoro che ruota la narrazione.
La mostruosità di un universo tutto risolto in un profitto onnivoro e feroce, il massacro dei desideri individuali e collettivi, quel groviglio di vulnerabilità, acredine e impotenza che imbriglia i tentativi di disarticolare la bulimia del sistema. E, insieme, l’impresa titanica di immaginarne lo sgretolamento nel finale liberatorio.
Il romanzo, che si snoda tra Bologna e un paese immaginario della Sardegna (Bisumannu), racconta in prima persona il destino di due fratelli, Alessandro e Francesco (l’io narrativo è prestato a entrambi i protagonisti, spiazzando il lettore con un gioco di specchi e di identificazioni alternate): il primo, studente di filologia classica a Bologna e giovane di grandi e generose illusioni, desidera e immagina per sé un futuro nella ricerca universitaria; il secondo, che ha abbandonato gli studi per raggiungere autonomia e stabilità, lavora come falegname in Sardegna.

IL TRAUMA del licenziamento del padre dalla fabbrica dove aveva lavorato da più di vent’anni – il macigno del fallimento, il gorgo di umiliazione e solitudine che inghiotte un uomo non più giovane – travolge la vita di entrambi. Alessandro deve ammazzarsi di lavoro per conservare l’identità di studente fuorisede e la sua dimensione intellettuale a Bologna: partecipa agli eventi dei collettivi con un trasporto generoso, che non sempre scongiura un sottile senso di esclusione (cosa ha a che fare lui, abituato a pagare il prezzo intero per ogni cosa, con le «anime belle», con i «professionisti della rivoluzione»? Qui l’autore è davvero magnificamente impietoso). Giorno dopo giorno, il desiderio e l’adattamento diventano sinonimi e Alessandro viene risucchiato in un buco nero fatto di consegne a domicilio, iperlavoro e sfinimento, solitudine e vino; il sogno della ricerca in università si sgretola un mattoncino alla volta, senza neanche mai dirselo o deciderlo, vi rinuncia tacitamente.

ALLA VIOLENZA di questo nuovo ordine della sua vita, il protagonista sacrifica di fatto anche il sentimento per Ilenia, la ragazza con cui ha scoperto l’amore. Sin dalle prime pagine si intuisce, invece, che per Francesco, da sempre alle prese con le durezze del lavoro manuale, nonostante lo sforzo per farcela a tirare avanti, si sta preparando, quale che sia, un destino tragico perché, come si legge nel romanzo, «il lieto fine non esiste qui». Molto diversi i due fratelli, ma tenace e profondo il loro legame. Al varcare la linea d’ombra della maturità, Alessandro e Francesco sono due facce di una stessa medaglia, due possibili risposte alla pedagogia del capitale, che nella vita vede solo un fattore di profitto.
È previsto tuttavia un «altrove», un ritorno. Per cercare un’altra strada, la strada di far esistere ciò di cui si ha bisogno e desiderio, delineando un altro e più grande orizzonte. Senza nessuna certezza di buon esito. «Da quando nasciamo ci fanno credere che tutto dipenda da noi come individui, accollandoci la responsabilità di tutti i nostri fallimenti»; e invece, ci sono scelte che si possono compiere solo collettivamente: «non si può tornare soltanto per amore della nostra terra e delle persone che la vivono, bisogna coniugare a questo la voglia di cambiare tutto».