Ragionare delle pratiche di travestitismo nel mondo moderno richiede complicate definizioni e sottocategorie e cautele: non sempre sufficienti a evitare comunque il rischio, piuttosto scoraggiante, di apparire culturalmente inadeguati o non abbastanza ‘politicamente corretti’. Di sicuro, più complicato ancora è parlare di travestitismo per il mondo antico. Anzitutto perché va superata una difficoltà iniziale. Bisogna riuscire a pensare in vesti di donna quell’Uomo Greco, che la tradizione ci ha fatto immaginare (quasi) sempre pensoso del bello ideale. Si deve figurarsi senza toga quell’Uomo Romano, che lo stereotipo vuole (quasi) sempre granitico e virile. Sembra quasi più facile ricordare i Greci, e in fondo anche i Romani, persino come amanti di fanciulli, che come individui en travesti. E ancor più straniante si fa il tema quando pensato al femminile: sarà possibile vestire in abiti di uomo le pudiche donne ateniesi, o le caste matrone romane? Eppure, lo dicono le fonti, così accadeva. E non in episodi particolari, che solo l’odierna attenzione al fenomeno induce a valorizzare; né solo tra le pieghe di oscuri miti o riti. Oltre ad Achille in Sciro, oltre alla vergine guerriera Camilla, c’è altro.
Una pudica rimozione
Il fatto è che il tema è stato trascurato, o trattato malvolentieri, dagli studiosi del mondo greco-romano: quasi che il carattere perturbante della pratica ne consigliasse la pudica rimozione. Per superare questa sorta di blocco serviva un ripensamento largo: lo offre ora TransAntiquity Cross-Dressing and Transgender Dynamics in the Ancient World (a cura di Domitilla Campanile, Filippo Carlà-Uhink e Margherita Facella, Routledge, pp. 262, £ 115,00). Il volume nasce da un convegno tenuto a Pisa nel 2013: il titolo è in inglese, l’editore è estero, i saggi sono tutti in inglese, anche se gli autori sono in larga maggioranza italiani. Un effetto della spinta alla «internazionalizzazione» delle nostre università. E anche una necessità: difficile evitare l’inglese per un tema in cui il lessico è largamente inglese. Ma la questione del lessico ha un altro aspetto, più importante. Non è più sufficiente aggrapparsi all’idea tradizionale per cui, se manca la parola, manca il concetto: seguendola, lo studio del cross-dressing nel mondo greco-romano sarebbe di fatto impedito. Il libro segue una strada più produttiva: «un nuovo vocabolario è in grado di generare l’oggetto che definisce». Perciò anche la concettualizzazione dei fenomeni legati al travestitismo (rituale o altro), pur recente, può legittimamente essere applicata a epoche precedenti.
L’antichità non conosceva certo il concetto, ma le prassi di cross-dressing e transgender erano assai ricche. Le hanno studiate soprattutto gli storici delle religioni, che si sono soffermati in particolare sui travestimenti iniziatici o rituali, sull’ermafroditismo e sulla castrazione dei ministri di culto: uno sguardo per lo più tecnico, e talvolta incline a un comparativismo dagli esiti generici, tra iniziazioni e riti di passaggio. Un punto ne è uscito chiaro, e con efficacia è trattato nel volume: per gli antichi, l’aperta «fluidità» tra i generi era pensabile e non problematica anzitutto (o esclusivamente) nella sfera del divino. Ciò si riscontra nel mito, ma anche nel rito: persino nei limitati casi di castrazione rituale, si riteneva che fosse la divinità a rendere «donne» i maschi che avevano rinunciato alla propria virilità (così si vede anche nel drammatico mito di Attis, evocato da Catullo). E da questo aspetto si può passare, con una certa continuità, all’eunuchismo cristiano, e di là fino all’ascetismo (pure praticato dai cristiani delle origini), perché in esso agiva sia la de-sessualizzazione del devoto, sia, di conseguenza, lo scambio tra generi.
Gli assaggi condotti dagli autori del libro (una dozzina di contributi, divisi in quattro sezioni) sono sempre consapevoli del dibattito recente. Essi mostrano tuttavia una condivisibile preferenza per i dati e l’analisi delle fonti, rispetto alle teorie: ne deriva il principio che lo studio delle pratiche va condotto tenendo conto del contesto e delle mentalità condivise, e che di pratiche e mentalità vanno storicamente indagati e compresi i meccanismi, con le opportune distinzioni e diacronie. Per farlo, è naturalmente necessario liberarsi del condizionamento indotto dagli stereotipi. Come si nota dai saggi contenuti, gli esempi antichi di cross-dressing non erano confinati ai personaggi monstre, e ciò definitivamente toglie forza alle eventuali perplessità dei moderni: al contrario, la documentazione sta in pagine normali, pagine talvolta note dagli anni della scuola, ma troppo spesso prudentemente depotenziate della loro trasgressività.
Altra difficoltà da superare è l’approccio «essenzialista» tipico dei moderni, quello per cui «ciò che si fa» coincide con «ciò che si è». Generalizzando, si può dire invece che negli antichi (in Grecia, ma anche a Roma) prevaleva un approccio «funzionalista». Un diverso diaframma che impedisce uno sguardo analitico sul fenomeno era ed è costituito dal moralismo: esso in molte fonti superstiti condiziona lo sguardo sulle pratiche che comportavano fusione o confusione tra maschile e femminile. Dietro quel moralismo e i suoi giudizi negativi, stava in realtà un timore: chi portava abiti diversi da quelli attesi mostrava di voler uscire dall’orizzonte dei comportamenti «normali», e di aprire la via a minacciose inversioni di ruoli.
Gli eccessi della libidine
Oggetto di biasimo era soprattutto il maschio «effeminato»: la sua rinuncia al percorso della virilità «regolare» appariva come un’apertura agli incontrollabili eccessi della libidine, e come tale egli era considerato socialmente minaccioso. Di qui le prevedibili ironie o i feroci scherni contro la «mollezza» e la «lussuria». A Roma, svaniti i rigorismi dell’età più arcaica, il travestitismo fa una comparsa clamorosa: l’intrigante Publio Clodio, vestito da donna, cercò di incontrare clandestinamente la sua amante, moglie di Cesare, durante una festa religiosa cui prendevano parte solo donne. Lo scandalo però era più nell’adulterio, che nel travestimento! Più tardi le ironie dei poeti satirici colpiranno gli uomini «molli»: ma che in loro l’adozione di usi «femminili» significasse «femminilità» era più il frutto di uno stereotipo che un fatto da tutti condiviso. Per simmetria, l’astio di Giovenale si rovesciava in età imperiale anche sulle donne troppo virili, rivestite di abiti maschili da gladiatore e accusate di scardinare consolidate divisioni dei ruoli. La tradizione però mostra che il giudizio sulla donna vestita in abiti maschili era più sfaccettato: la donna era certo considerata degenere se cercava di usurpare il ruolo ritenuto maschile, ma diveniva in qualche modo apprezzabile se aspirava invece a imitarlo, a superare le debolezze del proprio genere, a tendere verso una virtù «superiore». Come in guerra: lo stratagemma del travestimento (nelle due direzioni, in verità) viene ricordato di frequente e apprezzato, senza dubbi identitari sui temporanei crossdressers.
Di qui la domanda: quanto rappresentativi erano i severi censori, quelli che vedevano (e vedono) ovunque quei segni di rammollimento, e che un ulteriore e persistente stereotipo giudicava tipicamente orientali? In effetti, caricatura e grottesco non sono sempre dei buoni rilevatori dei fenomeni, e spesso raccontano come mostruoso ciò che inquieta o non si comprende. Questo può portare a errori di valutazione. In antico, la condanna dei moralisti era pesante specialmente quando coinvolti in episodi di travestitismo erano i personaggi del potere (i maschi, soprattutto ). Eppure fin dal mondo egizio, poi per l’età ellenistica e anche dopo, la fluidità di genere nella sfera del potere regale era un fatto accettato. Essa fornisce, culturalmente e storicamente, la spiegazione di gesti «scandalosi» attribuiti a figure come Nerone o Elagabalo: che non furono dei folli debosciati, ma (anche) dei monarchi coscienti di incarnare un ruolo che poteva trascendere i limiti del gender. Ma questo è forse un discorso troppo sottile per chi ama le solite geremiadi sulla «decadenza».