Non fu lui il regista della trattativa tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. Non fu lui, temendo di essere finito nel mirino della mafia dopo l’uccisione di Salvo Lima, a muoversi per cercare un contatto tra lo Stato e le cosche utile ad attivare un negoziato che potesse fermare nell’immediato i sicari e, successivamente, a mettere fine alla stagione delle stragi dei primi anni 90. E’ bastata un’ora di camera di consiglio al gup di Palermo Marina Petruzzella per assolvere l’ex ministro Dc Calogero Mannino dall’accusa di minacce a corpo politico dello Stato, reato per il quale la procura del capoluogo siciliano aveva chiesto una condanna a 9 anni di carcere, pena ridotta per la scelta del rito abbreviato. Assolto «per non aver commesso il fatto», ha invece deciso il giudice. Una sentenza che se da una parte non smentisce l’ipotesi sulla quale la procura di Palermo sta lavorando da sette anni, ovvero l’esistenza della trattativa tra pezzi dello Stato e boss mafiosi, dall’altra rischia di avere ripercussioni sul processo principale in corso presso la corte d’Assise e che vede imputati, tra gli altri, gli ex ufficiali dei Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe de Donno, l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza), l’ex parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri e boss come Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Antonio Cinà. Per i pm Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia e per l’aggiunto Vittorio Teresi la decisione del gup Petruzzella rappresenta uno stop ma non fermerà il lavoro della procura. «Impugneremo al sentenza, andiamo avanti», hanno detto. Più cauto il commento del procuratore capo Francesco Lo Voi, per il quale «l’appello è possibile, ma si devono leggere le motivazioni. Anticipare giudizi è inutile».

Ventidue anni dopo la prima accusa di concorso in associazione mafiosa (per la quale l’ex ministro è stato assolto) Calogero Mannino è un fiume in piena: «E’ la fine di un incubo giudiziario. E’ una sentenza coraggiosa», dice senza risparmiare accuse alla procura. «Io ho fiducia nella giustizia, meno nei confronti di certi pubblici ministri ostinati e accaniti». Per la procura l’ex potente democristiano sarebbe stato «il motore primo» di una scellerata trattativa messa in moto quando, dopo la sentenza del maxiprocesso e la successiva uccisione di Salvo Lima, Mannino avrebbe capito che il prossimo a finire sotto i colpi della mafia sarebbe stato lui. Per salvarsi la vita, nel 1992 avrebbe quindi sfruttato i suoi rapporti con i Ros Di Subranni e Mori per avviare la trattativa che doveva servire a convincere i boss a non ucciderlo in cambio di un alleggerimento del 41 bis, considerato intollerabile dalle cosche. Evitare che Mannino venisse ucciso non sarebbe stato l’unico motivo della trattativa, hanno spiegato i pm, ma certamente il primo. Una tesi che il 26 marzo scorso Mannino ha respinto fornendo in aula la sua ricostruzione di 30 anni di vita politica del paese.
Il dispositivo della sentenza che ieri lo ha assolto fa riferimento al secondo comma dell’articolo 539 del codice penale che prevede il proscioglimento quando la prova è insufficiente. Circostanza che non ha impedito all’ex Dc di attaccare pesantemente il pm Nino Di Matteo: «Ha già fatto condannare innocenti», ha detto riferendosi al processo per la strage Borsellino su cui pende un giudizio di revisione. Secca la risposta del magistrato, che si è detto «fiero delle condanne definitive ottenute».

La decisione del gup di Palermo è stata commentata con durezza da Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili. «Il magone resta. Resta perché i nostri figli sono morti, non ci sono più, non saranno mai grandi e non saranno mai vecchi. Ce lo vogliamo dire, fra noi e noi, – ha proseguito Maggiani Chelli – che è la solita assoluzione per insufficienza di prove? E diciamocelo. Resta il magone perché quei cinque morti in via dei Georgofili la notte del 27 maggio 1993 hanno perso la vita in cambio della vita di almeno sette ex ministri». «Mi piacerebbe – è invece il commento del presidente dei Libera, don Luigi Ciotti – che in questo paese ci fosse maggiore investimento per la verità, e ce la verità, prima che la nostra intelligenza, chiami in causa la nostra coscienza».