Alle 9.30 del mattino l’elicottero di Ashraf Ghani atterra sullo spiazzale del Politecnico di Kabul. In testa un turbantone svolazzante, sulle spalle un mantello chapan delle grandi occasioni, il presidente viene accolto dalla banda militare. Bacia la bandiera della Repubblica islamica d’Afghanistan. Impettito percorre il tappeto rosso che lo conduce all’interno della grande sala.

Di fronte a lui ci sono 3.200 persone, di cui il 30% donne. Provengono dalle 34 province del Paese e hanno il compito di decidere se e come negoziare la pace con i Talebani.

LA LOYA JIRGA, la tradizionale assemblea del popolo afghano, è iniziata lunedì, tra misure di sicurezza straordinarie. Kabul da giorni è irriconoscibile. Strade quasi deserte. Uffici governativi, università, scuole e molti negozi chiusi. L’accesso alla città più controllato del solito. La Loya Jirga è un’occasione troppo importante. Il governo non può permettersi errori. Non può permetterseli soprattutto lui, il presidente.

Ashraf Ghani l’ha fortemente voluta. Benché la leggenda vuole che risalga ai tempi dei tempi, la pratica della Loya Jirga è stata inaugurata dal re riformatore Amanullah Khan negli anni Venti del Novevento. Serve a trovare il consenso su temi particolarmente controversi. Non si tiene più sotto grandi tende colorate, ma in un auditorium con aria condizionata, all’interno dell’università costruita dai vecchi occupanti, i sovietici. Questa volta il tema è la pace con i Talebani. Va fatta o no? Quando? In che modo? Entro quali limiti? Per ottenere cosa?

SONO TANTE LE DOMANDE che ruotano in testa agli afghani. Ancora di più dopo che Talebani e americani hanno iniziato a sedersi a un tavolo negoziale, ospiti del governo del Qatar, a Doha. Finora è stato raggiunto un accordo preliminare sul ritiro delle truppe straniere in cambio della garanzia dei Talebani che il Paese non diventi una base per terroristi a vocazione internazionale. Ma la strada è ancora lunga. E al tavolo negoziale manca un ospite fondamentale: il governo di Kabul.

IL PRESIDENTE GHANI punta sulla Loya Jirga proprio per riaffermare la centralità del governo e del Paese. Un proposito legittimo, ma contestato. Molti esponenti politici di peso, compresi alcuni membri del suo governo – incluso il “primo ministro” Abdullah Abdullah – hanno deciso di boicottarla. Ritengono che sia soltanto un espediente in vista delle elezioni di settembre, quando il presidente cercherà un secondo mandato. «Non è veramente rappresentativa. I delegati sono filogovernativi. È una perdita di tempo e di soldi», così ci ha detto domenica, il giorno prima che iniziasse la Jirga, Kadir Shah Angar, portavoce di Hanif Atmar, già consigliere per la sicurezza nazionale e tra i candidati favoriti alle elezioni presidenziali.

NEL DISCORSO INAUGURALE, Ghani ha enfatizzato proprio l’inclusività dell’assemblea. «Balkh, Herat, Farah, Faryab, Kandahar, Paktya…». Con foga oratoria ha elencato tutte le province coinvolte nella designazione dei delegati. «Perché è vero che ci sono i politici, i membri del Parlamento, ma ci sono soprattutto tanti delegati e delegate che sono stati eletti dalle comunità locali, con votazioni trasparenti, in tutto il Paese», ci assicura Zamaray Baher, a capo dello staff di Omar Daudzai, già ministro dell’Interno e principale organizzatore della Loya Jirga. «Nessuno si aspettava che riuscissimo a farla in tempo, e invece eccoci qui», ribadisce Shaqib Rahim, vice-responsabile del Segretariato della Loya Jirga. «Il 30% di donne, rappresentanti delle categorie, giovani, studiosi di Islam, artisti, famiglie di martiri, uomini e donne da ogni parte del Paese», aggiunge.

L’assemblea è soltanto consultiva, ma è la rappresentatività la sua vera forza. «La più rappresentativa della storia afghana», ripetono gli organizzatori, facendo la eco a Ghani.

QUANTI BOICOTTANO o criticano la Jirga pensano che sia una perdita di tempo, un siparietto per rafforzare la legittimità del governo, in particolare di Ghani, che avrebbe già in mano il testo finale. Inutile discutere per 4 giorni, fino a giovedì incluso (a meno di probabili posticipi). Abdul Waheed, 24 anni, una laurea e un periodo di studio in Kazakistan, viene da Faizabad, capoluogo della provincia di Badakhshan, nel nord-est del Paese.

Non ha alcuna fiducia nel processo consultivo né nell’esito della Loya Jirga. Eppure ha deciso di prendervi parte. Curioso. «È già tutto organizzato. Decidono come sempre i pashtun», sbuffa. «È una gran perdita di soldi», sostiene. Non è l’unico a pensarlo.

TRA LE DELEGATE, però, c’è chi contesta l’idea che chiunque partecipi alla Jirga sia un sostenitore di Ghani, pedina di un partita che si gioca tra l’Arg, il palazzo presidenziale, la Wolesi Jirga, la camera bassa del Parlamento appena inaugurato, e il ristretto circolo dei potenti locali. Nurzia Yusufzai Charkhi viene dalla provincia di Logar. «La gente che mi ha votato ha voluto che fossi qui. Il messaggio che porto, anche da parte loro, è semplice: vogliamo pace. Per farla serve unione, consenso, non litigi e battaglie continue». Neanche Fareshta Shirzad, dalla provincia meridionale di Nimruz, ci sta a passare per ingenua. E sembra avere le idee chiare: «Va bene che Usa e Talebani negozino. Ma la pace non può venire dall’esterno. Serve innanzitutto una pace interna».

Prima ancora servirebbe giustizia. Ma è una parola che nessuno pronuncia. Pare espulsa dal discorso politico e mediatico. Occupato ancora da personaggi ingombranti. Ghani come presidente della Loya Jirga ha nominato il 73enne ustod Abdul Sayyaf, leader del jihad, fondamentalista e misogino. Sayyaf di giustizia non ha mai voluto sentir parlare. Anzi, si è speso molto per l’amnistia sui crimini passati. Compresi i suoi. Oggi presiede la grande assemblea di Pace.

«Ustod Sayyaf? Ieri alla Loya Jirga ha detto che è cambiato, che rispetta le donne. Per ora sono solo chiacchiere», chiosa la giovane Sharifa Mohamedi, che viene da Ghor e rivendica di essere la prima donna della provincia «ad aver aperto un ristorante e andare in moto». L’Afghanistan è cambiato. Sayyaf e Talebani è bene che se ne facciano una ragione.