Nel disordine un po’ incespicante in cui si muovono attualmente le istituzioni culturali (su cui si allunga una vaga ombra inquietante dei nuovi assetti governativi), rincuora un progetto che si è sviluppato nei mesi scorsi da Roma verso il sud, intrecciando il linguaggio della danza a quello delle arti visive e dei beni culturali, facendo conoscere il «nuovo», ma non tralasciando di confrontarsi con le tradizioni che ogni lembo del nostro meridione si porta dietro, e soprattutto dentro. Motore e origine del tutto è stata l’Accademia nazionale di danza (e della sua direttrice Enrica Palmieri) che ha lasciato per svariati mesi la sua augusta e meravigliosa sede in cima all’Aventino, per inoltrarsi, come avrebbe detto D’Annunzio, «per tratturo antico al piano». Ovvero il tragitto storico della greggi in transumanza. Tanto che il titolo dell’intera manifestazione suonava proprio TransumAnd, con quel gerundio tronco che evidenzia l’acronimo della scuola statale di danza, l’unica esistente in Italia, anche se in gara per il primato con l’Accademia della Scala.

«PRETESTO», se così si può dire, ma anche bene prezioso ed evocativo di cui far tesoro, sono stati i costumi che «la signora» Jia Ruskaja, fondatrice e direttrice a vita dell’Accademia fino al 1970, aveva ideato e fatto creare per le sue coreografie, abiti che come sogni proiettavano sugli spettatori suggestioni evocative. Personaggio complesso «la signora», fuggita causa la rivoluzione del ’17 dalla natìa Crimea (era nata in quella che era l’antica Tauride, e proprio come una Ifigenia euripidea deve esser fuggita dal «carceriere innamorato»). Venuta in Italia a cercare il nuovo, strinse un creativo sodalizio con il futurismo e con i fratelli Bragaglia e il loro Teatro degli Indipendenti. Con la sua forza di volontà fu ovviamente annessa alla cultura fascista, eppure fu capace di misurarsi, e invitare come ospiti, altre avanguardie da tutto il mondo. Un nome solo tra i tanti chiamati lungo gli anni a lavorare con lei: Kurt Joos, il coreografo padre del neoespressionismo coreografico tedesco, che sarebbe stato poi il primo maestro di Pina Bausch.

QUEGLI ABITI pieni di fantasia e di eleganza visiva, patrimonio ereditato ma rimasto negletto nei magazzini dell’Accademia, sono stati il tramite evocativo per «contattare» le città coinvolte nel percorso artistico, con le loro istituzioni culturali e il loro pubblico: Campobasso, L’Aquila, Teramo, Pescara, Pescara, Campobasso, Benevento e Foggia, per arrivare infine a Matera, quest’anno capitale europea della cultura.

E OGNI CITTÀ ha messo a disposizione teatri, archeologie industriali e palazzi antichi, sui quali sono intervenuti gli artisti (a iniziare da Alfredo Pirri al Mattatoio romano) creando ambientazioni e suggestioni inusitate che hanno rilanciato al meglio la fisicità di danzatori e danzatrici. Insomma un grande spettacolo itinerante, coerente eppure sempre diverso, come documenta il bel catalogo edito da SquiLibri. Una esperienza che non è stata solo un esercizio didattico di tutti coloro che vi hanno preso parte, ma l’apertura di una grande possibilità di comunicare attraverso la danza e le altre arti, in uno scenario quotidiano tutto da riscoprire.