All’inizio ci sono i suoni: è una sinfonia frammentata, che si interrompe e riprende, come se ci fosse qualcuno ad aprire porte invisibili per liberare improvvise sequenze sonore. Poi, avvicinandosi alla sala (quella grandissima stanza della morte dove venivano lavorati i suini, alla Pelanda, la «camera dark» del Mattatoio) la musica degli strumenti s’ingarbuglia con il ronzio insistente delle mosche, l’insetto che più di tutti narra il tempo sospeso dell’estate e, anche, la fine del corpo.

EVANESCENTI, quelle mosche fanno i nidi nelle maniche dei costumi dell’Accademia nazionale di danza: cinquanta esemplari di abiti che trasudano storia – raccontando tra le loro pieghe 70 anni di esistenza turbolenta in scena – se ne stanno a testa in giù, in una selva che simula gli alberi delle fiabe e i loro rami nodosi, gettando ombre inquiete. Sono fantasmi «rivestiti» di stoffe pregiate, appese ai ganci del patibolo e di una sventura delittuosa che ha il sapore della tragedia greca.
È così che Alfredo Pirri (con Marco Melia al disegno del paesaggio sonoro che riconduce lo spettatore nel labirinto acustico delle aule) immagina la sua presenza come artista nel progetto Ro-Mat transumAnd (a cura di Maria Enrica Palmieri), la mostra itinerante dei costumi storici dell’Accademia nazionale di danza che, seguendo i percorsi antichi dei tratturi, emigrerà verso l’Aquila, Teramo, Pescara, Campobasso, Benevento, Foggia, per approdare – ultima tappa – a Matera, nel prezioso museo archeologico Ridola. Lo farà mutando ogni volta pelle, in una metamorfosi continua dettata dai gesti dei suoi interpreti visivi (Luigi Battisti, Giuseppe Stampone, Matteo Fato, Eugeno Tibaldi, Bianco-Valente e Marco Neri), costellando il suo sentiero di performance, riempiendo di corpi gli interni lasciati come «gusci vuoti».
A Roma, in quel bosco di tessuti dalla forma umana, strizzati e imprigionati, accompagnati da alcune fotografie impastate di colore, graffiate e scavate, Pirri ritrova la maledizione mitologica delle Erinni che Sartre volle convertire in mosche infestanti, simbolo del tormento dell’anima, mormorio incessante del senso di colpa e memoria crudele del crimine commesso.

GLI ABITI, abbandonato il palcoscenico e i loro scrigni conservativi – molti sono stati scelti in omaggio alla coreografa, danzatrice e insegnante russa Jia Ruskaja, fondatrice dell’Accademia stessa, divenuta istituzione autonoma nel 1948 – interrogano gli spazi espositivi, scrivono nuove storie, sconvolgono equilibri, disseminano tracce. Si riavvolgono in forme diverse, passando di stato: da materia inorganica a corpi fisici, pulsanti.