C’è un Volkswagen Transporter proprio sotto casa di chi scrive. Il proprietario della latteria l’ha acquistato da poco e l’ha dipinto di rosa: splendido. Non sorprende, quel pulmino si è prestato da sempre ai guizzi artistici più estremi: è stato il veicolo di riferimento della controcultura Usa e europea anni Sessanta, dell’hippysmo mondiale, del movimento pacifista, dei surfer di mezzo mondo. Il Transporter ne aveva una per tutti, ma proprio tutti. Non a caso ben prima che aspergesse per il mondo messaggi di «peace and love», condivisione e bene cosmico, divenne il mezzo di riferimento dei nazisti statunitensi che nel 1961 lo rinominarono «Hate Bus», il bus dell’odio. Le immagini di Joe Scherschel, fotografo di Life, ritraggono l’incredibile destino del pulmino ostaggio di militanti con croce uncinata e uniformi nazi. L’idea venne a George Lincoln Rockwell, fondatore nel 1959 del partito nazista americano che lo aveva acquistato a rate e effigiato sulle fiancate con il proprio nome («Lincoln Rockwell’s Hate Bus») e con slogan da brivido altrove: «Noi odiamo davvero la mescolanza razziale».
Era lo stesso Rockwell a guidare accompagnato da una squadra di nazi in divisa. Il fatto che fosse nato a Bloomington, Illinois la dice lunga sulla storica battuta di Belushi quando nel film i Blues Brothers si imbattono in una manifestazione di estrema destra e fanno volare in acqua i nazisti. «Io li odio i nazisti dell’Illinois», sentenzia fiero Belushi. Proprio in quello stato si sarebbe formato nel 1970 il partito nazional socialista americano, direttamente ispirato da Rockwell. Fautore del white power, suprematista bianco e autore di atroci slogan antisemiti, questi decise che il 1961 doveva essere l’anno dell’«Hate Bus». Attraversò il sud degli Stati Uniti, organizzando marce e presenziando a manifestazioni del Ku Klux Klan. Le foto di Scherschel alla stazione di servizio risalgono al 23 maggio, esattamente tre giorni dopo l’assalto bianco ai Freedom Riders alla stazione dei Greyhound di Montgomery. Nel 1955, in questa città, l’afroamericana Rosa Parks si era rifiutata di cedere il posto a un bianco scatenando il boicottaggio locale degli autobus; qui Martin Luther King divenne pastore della Dexter Avenue Baptist Church. Sempre in questa città il 20 maggio 1961 i Freedom Riders, attivisti neri e bianchi, erano stati pestati sotto gli occhi della polizia che di proposito non era intervenuta. A partire da quell’anno, infatti, i Riders avevano cominciato a percorrere in autobus gli stati del sud che si rifiutavano – nonostante il pronunciamento della Corte Suprema – di dichiarare incostituzionale la segregazione sui bus. Qui entra in scena il pulmino di Rockwell che fiancheggiava i picchiatori bianchi incontrandoli e incitandoli. La scelta del Transporter fu sicuramente motivata dal fatto che fosse di origine tedesca e che la casa produttrice fosse nata su preciso volere di Hitler. Rockwell trascurava, però, un dato fondamentale: quel pulmino e la stessa Volkswagen erano radicalmente cambiati di segno divenendo nel dopoguerra simbolo della rinascita della Germania ovest e del miracolo economico tedesco. Insomma il Transporter come le nostre 600 e 500. Nato da un incredibile connubio tra le caratteristiche tecniche del Maggiolino (in origine denominato Volkswagen Type 1, l’auto da cui derivano le altre utilitarie del gruppo) e un furgone merci, il nostro pulmino, denominato Type 2, esordirà nel 1950. Inizialmente verrà immesso sul mercato con la sigla Type 2 T1 (modello durato fino al 1967, caratterizzato dal parabrezza diviso in due) e in seguito – dal ’67 al ’79 – con il nome Type 2 T2 (con parabrezza intero, panoramico). Nel 1979 la produzione di quest’ultimo verrà spostata in Messico (fino al 2002) e in Brasile (terminata lo scorso dicembre). Comunemente chiamato Bulli (dalle iniziali delle parole bus e lieferwagen, carro merci) o Kombi (da combinato, utilizzabile cioè per trasporto passeggeri o, rimuovendo i sedili posteriori, per il trasporto merci), quel pullmino è un’icona assoluta del Novecento. Si è riempito di colori e decorazioni, ha trionfato in film come Ritorno al futuro o nella serie tv La famiglia Bradford, è finito in una sequela di film sul surf e sugli anni Sessanta negli Usa. Quando Rockwell se ne appropria non sa che sta guidando il suo prossimo nemico numero uno, simbolo di pace assoluta; nel frattempo se lo porta in giro come una reliquia. Gli serve per muoversi ma anche per caricarci i dischi della sua sconcertante etichetta discografica, la Hatenanny, il cui nome (hate) faceva il verso alla parola hootenanny indicata per indicare gli happening sonori a base di folk. I dischi venivano venduti via posta e direttamente alle manifestazioni del partito nazista. Sempre con quel pulmino si presenterà a Washington a un meeting della Nation of Islam. Era convinto che una saldatura con l’organizzazione religiosa nera – spesso accusata di separatismo e antisemitismo – gli sarebbe potuta servire per affermare le sue idee. Addirittura arrivò a definire Elijah Muhammad, al tempo leader della Nation, «l’Hitler del popolo nero». Nel ’62 parlò ai membri della Nation Of Islam a Chicago e fu fischiato, Muhammad, però, apprezzerà il discorso. Passeranno tre anni e avvicinerà anche Malcolm X, fuoriuscito da un anno dalla Nation.
Il leader nero sarà categorico: «Non sono più ostaggio dei musulmani neri separatisti guidati da Elijah Muhammad che mi impediva di combattere i suprematisti bianchi. Questo telegramma è per avvertirti che se la tua campagna razzista arrecherà danni fisici al reverendo King o a qualsiasi altro nero desideroso di godere dei propri diritti civili, tu e i tuoi amici del Ku Klux Klan subirete la massima ritorsione fisica da parte di chi tra noi non è trattenuto dalla disarmante filosofia della non violenza e anzi crede fermamente nel diritto all’autodifesa – con ogni mezzo necessario». Quando Rockwell ricevette il telegramma del leader afroamericano era sempre in giro con il suo Hate Bus. Riteneva Malcolm X il vero leader dell’America nera e rimase profondamente deluso. Nel frattempo il pulmino si fermava agli angoli delle strade destando rabbia e sconcerto. Gli stessi file dell’Fbi si riempivano di dati e informazioni su Rockwell descritto come un «egocentrico» e un «fallito cronico» dal punto di vista lavorativo. Gli agenti federali erano convinti che avesse fondato il partito nazista solo per soddisfare un insopprimibile bisogno di fama e popolarità. Nei file scorrevano slogan deliranti come quelli che invitavano a combattere una presunta cospirazione sionista. Sconcertante fu l’intervista a Playboy del 1966 in cui – incalzato da Alex Haley, giornalista e scrittore nero, autore di Radici – negava l’olocausto. Nel 1967 George Lincoln Rockwell fu assassinato all’esterno di un centro commerciale di Arlington, Virginia. Un ex membro del partito fu arrestato e condannato per omicidio. L’Fbi annota che per il mancato pagamento delle rate, il pulmino fu pignorato. Da quel momento usciva definitivamente dalla prigione dell’intolleranza ed entrava per sempre nel pantheon iconico del pacifismo. Era ora.