Paradosso temporale amore mio. Nel segno di un sincretismo tipicamente nipponico, in grado di cortocircuitare distanze e culture, Storia (quella con la maiuscola) e omaggi trasversali alla pop culture più sfrenata, Thermae Romae è stato un vero e proprio caso in patria. Tratto dal manga di Yamakazi Mari, diventato un anime nel 2012, Terumae Romae, questa la trasposizione fonetica dell’originale nipponico, adattato per il grande schermo, il film si è rivelato un successo superiore alle previsioni. Al punto da ipotizzare, come per ogni prodotto seriale che si rispetti, ben due sequel.

Distribuito dalla Tucker, il film di Hideki Takeuchi è un esempio perfetto di umorismo nipponico completamente sopra e sotto le righe. La premessa, degna dei Vanzina visionari di A spasso nel tempo, vede un romano, Lucius Modestus, costruttore di terme che fatica a stare al passo con le esigenze patrizie dei suoi committenti, risucchiato da una vasca e rispuntare nel Giappone contemporaneo. Incurante della legge non scritta che tutti i viaggiatori spazio-temporali rispettano, ossia non lacerare il continuum storico, accumula esperienze e informazioni che sfrutterà una volta ritornato a casa.

A ben vedere Thermae Romae funziona come il modesto I visitatori, sfruttando in chiave comica l’incongruità di personaggi estrapolati in maniera pretestuosa dal proprio contesto. La marcia in più del film di Hideki Takeuchi, se si vuole, è data dalla possibilità di osservare il mondo dell’antica Roma attraverso uno sguardo schiettamente esotico. Per una volta siamo «noi» gli osservati e scrutati dallo sguardo altrui.

Realizzato a Cinecittà, il film è all’insegna di un umorismo di grana grossa, fondato su gag corporali, doppi sensi che non sempre centrano il bersaglio e un repertorio ampio di smorfie, il film si fa beffe dello specifico culturale sia romano che nipponico. A volerlo leggere in controluce, non si fatica a notare una sorta di nostalgia «culturale» nei confronti di un complesso di valori immaginato come portatore di senso e direzione ma assente nel mondo contemporaneo. Il fuoco di fila di trovate surreali funziona in realtà come una sorta di esorcismo nei confronti di un mondo, il nostro, che si fatica a comprendere. L’evidente metafora delle vasche comunicanti, dal Giappone a Roma antica, si offre come possibile transfert salvifico che nella risata un po’ sgraziata trova il modo di ipotizzare una reinvenzione dei valori.

Ed è proprio nel gioco insistito degli stereotipi etnici, con il divo Horishi Abe che posa da romano, ossia un romano visto da un giapponese che immagina un romano, che tali prospettive rovesciate rivelano la loro natura ideologica di gioco che, purtroppo, sovente si presenta con il fiato corto. Il problema di fondo del film è che tentando di portare sullo schermo l’umorismo e l’agilità del manga di provenienza, senza avere riflettuto a sufficienza sulla diversa valenza ritmica del taglio delle inquadrature sulla carta e sullo schermo, Hideki Takeuchi ha tentato un’operazione riuscita però infinitamente meglio a Hideaki Anno con Cutie Honey, tanto per fare un esempio, o a Tetsuya Nakashima con Kamikaze Girls.

Thermae Romae, se non altro, funziona come valido viatico verso una produzione cinematografica ancora largamente ignota ai frequentatori delle sale cinematografiche italiane, oltre che esempio di un sentire e di un’estetica sdoganata da otaku, fan e devoti di cose nipponiche.