Con alcuni giorni di anticipo sulla conclusione della manifestazione, due mostre della parte Off di Dak’Art, la biennale di arte contemporanea che si svolge dai primi anni novanta nella capitale senegalese, sono state chiuse dalle autorità, sollecitate da alcuni esponenti religiosi islamici: la loro colpa è quella di avere toccato il tema dell’omosessualità e dell’omofobia in Africa. L’esposizione presentata dalla galleria Raw Material Company, diretta dalla curatrice Koyo Kouoh, era interamente consacrata all’«immagine gay in Africa»; la collettiva proposta da Aissa Dione, altra affermata gallerista, proponeva invece un’opera della senegalese Mame-Diarra Niang ispirata dall’esumazione, nel 2009, della salma di un giovane presunto omosessuale: i genitori, non potendolo seppellire in un cimitero, lo avevano interrato nel loro giardino. In Senegal «ogni forma di unione non conforme alla morale comune» è passibile, sulla base di una legge del 1966, di una pena che va da uno a cinque anni di carcere.
Negli ultimi anni, nel paese l’omosessualità è stata oggetto di crescente demonizzazione nel discorso religioso e la questione è stata sempre più ampiamente strumentalizzata a livello politico. Nel corso della campagna elettorale che lo ha portato alla presidenza, Macky Sall ha dovuto difendersi dall’accusa di voler abrogare la legge: alla quale ha fatto riferimento Obama nella sua visita a Dakar nel giugno scorso, sollecitando al rispetto dei diritti umani il presidente, che ha replicato richiamandosi alla diversità delle culture e alla comune sensibilità popolare, e non ha rinunciato a ribattere che il Senegal ha da tempo abolito, a differenza degli Usa, la pena di morte. Le parole di Obama sono diventate una sorta di incidente diplomatico, e hanno urtato molte suscettibilità, contribuendo a rendere più caldo il tema.
Già nella notte tra il 12 e il 13 maggio Raw Material Company aveva subìto un assedio intimidatorio da parte di estremisti, con vandalismi all’illuminazione e all’esterno della palazzina in cui la galleria ha sede. Il caso poi è montato in seguito a un articolo uscito su Le Monde che metteva in risalto i contenuti antiomofobi presenti in Dak’Art 2014, e a una trasmissione televisiva senegalese. «Alcuni estremisti hanno attaccato Raw Material Company prendendosela per il momento con l’edificio – ha commentato Kader Attia, uno degli artisti in mostra – e hanno promesso di tornare a finire il lavoro. Lo stato ha dato loro ragione, proibendo questa e un’altra esposizione. Così, non possono che essere confortati nella loro cieca missione». Il segretario generale della Biennale, Babacar Mbaye Diop, si è limitato a dire che Dak’Art non è responsabile delle proposte del circuito Off, ma solo delle esposizioni ufficiali.
Avevamo intervistato Koyo Kouoh il giorno prima della spedizione contro Raw Material Company, e l’atmosfera sembrava tranquilla, tanto che la gallerista aveva fatto un bilancio positivo dell’accoglienza ricevuta dalla mostra, non senza registrare però il clima generale: «Mentre preparavamo Libertés individuelles, la serie di iniziative in cui la mostra si inserisce, avevamo molti timori: tutto il programma metteva un accento particolare sulla sessualità, l’omosessualità e l’omofobia in Africa. E diverse persone ci consigliavano di non occuparci di queste cose. Sarebbe stato pericoloso… In realtà, non è accaduto nulla, a conferma che il Senegal è un paese ad alto grado di tolleranza. Certo, esiste un’opinione che si esprime in pubblico e una in privato: la seconda può allontanarsi parecchio dalle regole sociali e da quelle religiose, la prima, invece, si allinea sempre. Sull’omosessualità sono pochissime le voci che nella piazza pubblica si esprimono apertamente, prendendo delle posizioni che vanno in senso contrario rispetto a quello che la norma afferma».
Con Raw Material Company, nel (normalmente) tranquillo quartiere Sicap Amitié 2, Kouoh ha voluto consegnare alla città qualcosa che a Dakar mancava: un luogo di esposizione e un ambito di riflessione attento alla valorizzazione della pratica artistica come mezzo per intervenire su problematiche sociali e politiche. Per l’intero arco dell’anno, Kouoh ha scelto di caratterizzare le attività della galleria con un ciclo di iniziative intorno alle libertà individuali. Come seconda tappa, in coincidenza con l’inaugurazione in maggio di Dak’Art, una collettiva intitolata Imagerie precaire, consacrata alla (sottotitolo della mostra) «visibilità gay in Africa», curata direttamente da Koyo Kouoh assieme a Ato Malinda. «Anzi affermerei – aveva aggiunto Koyo Kouoh – che molti giornalisti sono stati felici di avere l’occasione per trattare questo soggetto in maniera più oggettiva e rispettosa in rapporto alla dignità delle persone. Ma – come dicevo – nessuno sarebbe esplicitamente positivo: il contesto in generale è virulentemente contro, sul piano culturale, sociale, religioso. La tolleranza si traduce in un generale atteggiamento all’insegna del ’don’t ask, don’t tell’».

Nel mondo tradizionale senegalese non manca una consistente presenza dell’omosessualità maschile…

Sì, anche quella femminile è molto visibile…

Per esempio degli omosessuali come «maestri di cerimonie» in feste che hanno come protagoniste le donne…

I goordjiguen (omosessuale in wolof, da goor, «uomo», e djiguen, «donna», n.d.r.) sono persone a cui non si attribuisce nessuna sessualità: sono lì per le cerimonie, per animare, per fare da mangiare, ma la loro sessualità rimane un tabù. Si sa che cosa potrebbero fare o fanno, ma non se ne parla mai: nei loro confronti, vige una sorta di ipocrisia.

Nella prima tappa di «Libertés individuelles», si sviluppava una riflessione sul passaggio da questa forma di integrazione dell’omosessualità al discorso omofobo oggi prevalente…

Ci siamo avvalsi del contributo di studiosi africani che si sono occupati dell’omosessualità nel continente, e la curatrice Eva Barois De Caevel ha lavorato su migliaia di articoli usciti sulla stampa senegalese negli ultimi dieci anni: abbiamo potuto osservare una radicalizzazione crescente dei toni in rapporto a questo soggetto, tendenza peraltro comune a tutti i media africani. Molti aspetti seminariali di queste nostre iniziative hanno anche il senso di una advocacy per la comunità omosessuale, di una forma di affermazione di sé.

Condivide l’opinione di Eva Barois De Caevel che le Ong finiscono per rinforzare l’idea dell’omosessualità come fosse un problema inportato?

Molte Ong in Africa, e non soltanto, hanno la tendenza a utilizzare certi soggetti a loro vantaggio, e anche a drammatizzare certe cose: più riescono a far passare l’idea che le cose vadano peggiorando, più ottengono finanziamenti. D’altra parte, penso che su questo tema le Ong non abbiano mai avuto abbastanza coraggio, in ogni caso non qui in Senegal: per affrontare l’omosessualità si sono un po’ nascoste dietro il problema dell’Aids.

E cosa può spiegare rispetto la seconda parte della mostra?

Abbiamo privilegiato il ritratto, una modalità molto chiara, diretta, e di fronte alla denigrazione degli stili di vita gay veicolata dalla stampa, con questa esposizione cerchiamo di proporre un’immagine positiva di una minoranza vessata. Nelle foto della ormai famosa serie di ritratti di Zanele Muholi, le lesbiche sudafricane appaiono donne come le altre, raccontandoci tutta l’assurdità delle violenze e degli omicidi di cui sono spesso vittime. D’altro canto, Andrew Esiebo è un fotografo nigeriano che, con i suoi ritratti di gay africani, rende labile la differenza fra omo e etero, banalizzando l’omosessualità e rivelandone la normalità. Jim Chuchu, artista keniano, si riferisce invece a un paganesimo precoloniale in cui, prima del condizionamento operato sulla sessualità dal cristianesimo e dall’Islam, i rapporti fra persone dello stesso sesso erano socialmente accettati. Il lavoro dell’artista egiziana Amanda Kerdahi M. è lo sbocco di una serie di conversazioni che ha avuto con molte donne del suo paese sulla loro intimità, sessualità, desiderio in generale, e su come l’espressione di questo desiderio venga limitata in una società islamizzata e molto normativa. Kader Attia, infine, ha lavorato da molti anni con le transessuali ad Algeri, mettendole in relazione comparativa con le hijras di Mumbai, e ha realizzato diversi collage intorno al tema dell’ermafroditismo.