Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Amato da Alberto Moravia, questo detto è ormai popolare anche nel mondo bancario: nel luglio 2015 l’Iran aveva firmato l’accordo nucleare, ma l’amministrazione Obama non aveva mai abolito le sanzioni finanziarie a Teheran e, per non incorrere in penalità, i maggiori istituti di credito italiani si erano rifiutati di accettare pagamenti provenienti dalla Repubblica islamica.

Questa cautela non è stata sufficiente a salvare Unicredit: all’istituto di credito guidato da Jean Pierre Mustier sono state comminate sanzioni per circa 900 milioni di dollari per transazioni effettuate da una banca tedesca rilevata da Unicredit.

Il caso ha origine nel 2011: la sua divisione tedesca, Hypo Vereinsbank, era stata citata in giudizio dall’ufficio del procuratore distrettuale di New York per transazioni effettuate negli primi anni duemila con alcune società iraniane che erano soggette a sanzioni primarie da parte degli Stati uniti.

Se le sanzioni sono americane, verrebbe da pensare, per quale motivo a venirne condizionate siano le imprese e le banche europee. E qui è necessaria una spiegazione sulle sanzioni americane, primarie e secondarie.

«Le sanzioni primarie americane – spiega l’avvocato Luca Davini dello studio Mantelli Davini di Milano che fa consulenza alle imprese italiane che decidono di lavorare con l’Iran nonostante le sanzioni – sono imposte ai soggetti statunitensi a cui è fatto divieto di commerciare e utilizzare i conti di particolari individui del paese che si vuole colpire, in questo caso l’Iran. Le sanzioni secondarie sono extraterritoriali, si applicano anche nei confronti di qualsiasi altro soggetto, individuo o società con sede al di fuori degli Stati uniti, a cui è imposto di rispettare le sanzioni americane nei casi in cui vengano usati, come spesso accade, i dollari americani».

Sulla questione delle sanzioni americane a Unicredit abbiamo sentito anche l’avvocato Marco Padovan, titolare dell’omonimo studio con sede a Milano specializzato in compliance in materia di esportazioni, ovvero in quelle misure necessarie alle imprese per tutelarsi da possibili sanzioni internazionali.

«Pur essendo la sanzione molto onerosa, 900 milioni di dollari non sono certo bruscolini, la notizia di un accordo è un grande sollievo per i vertici di Unicredit. Anche la borsa ha reagito bene, il rischio era alto sia in termini economici sia soprattutto di operatività e reputazione sui mercati. Di fatto, nell’accordo saranno coinvolte molte autorità statunitensi: dal Dipartimento di Giustizia al procuratore distrettuale di New York, dall’Ofac alla Federal Reserve al Dipartimento dei Servizi Finanziari dello Stato di New York».

Nessuna banca italiana aveva pagato un conto tanto salato per aver violato le sanzioni americane. Prima di Unicredit, a essere colpite erano state le francesi Bnp (con cui era stato firmato un accordo per 8 miliardi e 900 milioni di dollari) e Société Generale (accordo da 1,3 miliardi), la tedesca Commerzbank (1,45 miliardi) e Hsbc (1,9 miliardi), oltre ad altre banche europee a cui erano state comminate sanzioni minori.

Sommando le varie operazioni, «il Tesoro americano ha incassato più di 15 miliardi di dollari a fronte di violazioni di una normativa che sovente gli europei hanno considerato illecita», continua Padovan. Eppure, di fronte alla già citata extraterritorialità delle norme sanzionatorie americane, le banche europee hanno sempre preferito tirare fuori il portafoglio: «Meglio pagare che trovarsi isolati nel mondo finanziario senza una reale protezione negli strumenti approntati dall’Unione europea a teorica tutela dei propri cittadini in questa materia».

Recentemente i cosiddetti E3 (Francia, Germania e Regno unito) hanno messo in essere il veicolo speciale Instex che dovrebbe funzionare come camera di compensazione di debiti e crediti nell’import-export con Teheran. Ma la riflessione più immediata che la vicenda di Unicredit stimola – conclude Padovan – è che «le regole della finanza internazionale siano sempre più uniformi e univoche e vengano dettate in larga parte a Washington. Le iniziative politico-diplomatiche americane trovano sempre una spalla robusta nel sistema finanziario. Per questo motivo, in assenza di una reale forza finanziaria e militare, spesso l’Europa è in difficoltà anche quando vorrebbe compiere scelte di politica estera non in linea con quelle dell’alleato statunitense».