Un’unica data italiana, ma interessante per capire, al di là dell’eventuale valore «artistico», modi e possibilità di lavoro per nuovi linguaggi teatrali. Transquinquennal è un gruppo di artisti belgi, tre uomini e una donna. Si sono fatti conoscere in Italia l’estate scorsa, quando, proprio qui a Udine, hanno tenuto come docenti la 26° edizione della Ecole des maitres. Lavorano assieme da più di vent’anni, come spesso capita in Belgio tra compagni di formazione. Ora si sono messi addirittura una scadenza (tra cinque anni) al loro lavoro comune, una data che scandirà d’ora in poi (lo fa perfino un orologio sul loro sito) le loro prossime tappe. Interessati alla narrazione e ai suoi linguaggi quanto (e sicuramente ancor più) alle tecnologie che ne rendono possibili di nuovi, usano se stessi come punto di partenza, continuamente mescolato o sostituito con altri pezzi e identità dell’immaginario spettacolare. Come nel caso della performance vista a Udine nei giorni scorsi, Philip Seymour Hoffman, par exemple.

L’attore americano drammaticamente scomparso quattro anni fa, è preso appunto come un’icona «fredda», partendo dalla presunta somiglianza con lui vantata da uno dei membri del gruppo. Ma non c’è traccia della sua storia, né delle sue straordinarie interpretazioni pluripremiate, come l’indimenticabile A sangue freddo da Truman Capote. Altri brandelli biografici degli interpreti vanno a fondare i termini del racconto, con l’iniziativa presa dal gruppo di affidarne la scrittura a uno dei più acclamati drammaturghi contemporanei a livello mondiale, Rafael Spregelburd.

Lo scrittore argentino, notissimo in tutta Europa, è uno specialista della affabulazione di dati e retaggi collettivi, da cui trarre traiettorie di attenzione che possono esser tradite ad ogni passo, mantenendo però intatta una loro plausibilità di senso e di indagine.

La sua riscrittura, in versione contemporanea della Eptalogia dei sette peccati capitali ispirata a Hieronyms Bosch è stata messa in scena dai maggiori registi, e i Italia si ricordano i due celebri allestimenti di Luca Ronconi al Piccolo per La modestia e lo strepitoso Panico. I suoi testi non rincorrono la coerenza sequenziale né di senso, ma incrociano situazioni e paradossi che scoprono le incongruenze clamorose del nostro parlare (e del suo senso profondo), tutto in una apparentemente accettabile quanto fasulla convenzionalità. Succede anche qui, in un testo scritto «di getto» seppur su commissione.

Ci sono le rivalità tra gli interpreti e i loro ricordi personali; smarrimenti e agnizioni, e sembrano entrare in scena i rapporti tra un attore giapponese e un accanita concorrente di quiz tv. Ma svaniscono anche loro, ectoplasmi come gli altri dell’apparizione teatrale, e del suo spegnersi. Come il crudelissimo racconto finale di un natale in Canada, dove ogni gesto (e bagaglio teatrale) sembra venir usato a fin di bene, mentre si perpetrano le cattiverie più tremende, anche a un bimbo che sta per morire, mentre i personaggi ne traggono spunto per seppellire famiglie e vincoli.

Se una delle poche certezze dei Transquinquennal è l’adesione alle teorie del filosofo francese Clement Rosset sulla incontrollabile idiozia della vita, rifiutano però di organizzarne in modo razionale la trasmissione. Amano giocare (per la fatale omonimia in francese tra il gioco e la recitazione, significati entrambi dalla parola jouer). Anche i giochi più pericolosi per l’intelligenza. Amano perdersi, ogni momento, rischiando anche di perdere il filo e il senso della loro performance dietro alle apparenze. Che sono d’altro canto una essenza del teatro, nel bene e nel male.