Ottobre 2014. Il primo ministro Narendra Modi, in carica da nemmeno sei mesi, durante un convegno di medicina organizzato dal Mumbai Hospital sale sul palco e, in hindi, pronuncia il suo discorso istituzionale di fronte a rappresentanti della comunità scientifica nazionale: «Dobbiamo essere orgogliosi di tutto ciò che il nostro paese ha ottenuto in passato nel campo delle scienze mediche. Tutti noi abbiamo di certo letto di Karna nel Mahabharata. Se ci riflettiamo un poco di più, ci rendiamo conto che il Mahabharata dice che Karna non è nato dal grembo di sua madre. Ciò significa che le scienze genetiche già esistevano all’epoca. Ecco perché Karna è potuto nascere fuori dal grembo materno».

E ancora: «Noi adoriamo Ganesh. Di certo doveva esistere qualche chirurgo plastico, al tempo, che riuscì a mettere una testa di elefante sul corpo di un essere umano, dando inizio alla pratica della chirurgia plastica».

I giornalisti presenti al convegno raccontano di una sala pietrificata, muta, senza che nessun medico presente osasse avanzare una parvenza di critica scientifica alla «verità ancestrale» riportata nel più vasto poema epico dell’umanità: quasi due milioni di parole, in sanscrito, risalenti secondo le stime al nono secolo avanti Cristo. In India, specie per la destra indiana ultrahindu che Modi rappresenta, l’epica, la storia, la scienza, la religione e la medicina sono ambiti che si compenetrano. Insiemi sovrapposti che, ex post, confermano un’Età dell’Oro indiana in cui gli antenati degli hindu di oggi, grazie alla divina intercessione del pantheon induista, ebbero accesso e diffusero saperi e tecnologie inedite, «riscoperte» millenni più tardi da «gli altri».

La riappropriazione dei meriti «ingiustamente»negati nell’era moderna alla tradizione indiana passa anche per il revival della medicina vedica, più precisamente l’ayurveda («conoscenza della vita», dal sanscrito), un sistema medico complesso teorizzato in una serie di testi di cui i più antichi risalgono al tredicesimo secolo avanti Cristo, secondo gli storici. Secondo i fedeli, una saggezza ancestrale di origine divina tramandata per via orale a un gruppo di medici di Varanasi da Dhanvantari (uno degli avatar del dio Vishnu) «più di cinquemila anni fa».

La regola madre dell’ayurveda postula che un corpo sano è un corpo equilibrato, dove le varie componenti elementari convivono in armonia. I «gruppi di energia biologica» che fluiscono all’interno del corpo umano, i dosha, sono tre: vata (spazio e aria), pitta (fuoco e acqua), kapha (acqua e terra), e il loro bilanciamento è la precondizione imprescindibile per un corpo, e una vita, salubre. Equilibrio non significa però sempre parità, tanto che all’interno delle varie scuole ayurvediche – già, non esiste un solo ayurveda! – c’è chi ritiene che i tre dosha debbano essere in perfetto equilibrio per tutti, chi crede che ognuno abbia un equilibrio interno unico, per cui le componenti debbano essere dosate ad hoc, e chi ancora dice che in gioventù è meglio essere più kapha, in età adulta più pitta, nella vecchiaia più vata.

A seconda della scuola, il medico ayurvedico dopo aver determinato la natura dello squilibrio dei dosha nel paziente prescrive una serie di medicine composte da estratti di erbe: ricette derivate da un processo di esperimenti empirici affinato nel corso dei secoli dai rishi, i saggi della traduzione induista. Per la prima volta nella storia dell’India repubblicana il governo Modi ha elevato la tradizione medica «autoctona» al più alto rango dell’amministrazione statale, introducendo nel 2014 il ministero dell’Ayush, acronimo per ayurveda, yoga e naturopatia, unani, siddha e omeopatia.

Il dicastero ha il compito di promuovere dentro e fuori i confini la medicina «indiana», anche se di «medicine indiane», nell’Ayush, ci sono solo ayurveda, yoga, siddha (tradizione tamil) e unani (tradizione persiana). Per omeopatia, teorizzata dal medico tedesco Samuel Hahnemann nel diciottesimo secolo, e naturopatia, battezzata dall’americano John Schiel alla fine del diciannovesimo secolo, non è chiaro secondo quale pedigree siano state adottate dal governo in carica. Ma poco importa: la campagna per il rispolvero della medicina alternativa «made in India» cavalca le praterie sterminate di un mercato globale ansioso di attingere a tecniche di guarigione alternative, esotiche e antiche. Pratiche che evocano un tempo in cui l’uomo pre industriale sapeva vivere e curarsi in totale armonia con la natura e con lo spirito.

È innegabile che i pilastri portanti delle medicine cosiddette alternative prescrivano, a ragione, una condotta quotidiana salubre dagli effetti sicuramente benefici. Ma le cose si complicano quando, come succede in India, la tradizione medica locale viene brandita come arma contundente contro la testardaggine del metodo scientifico occidentale, che negando la dignità di «disciplina scientifica» a tecniche curative millenarie le derubrica in toto al rango di pseudoscienze.

Non a torto, come spiega brillantemente Priyanka Pulla in un lungo articolo pubblicato dalla rivista indiana Open nel 2013, dove ad esempio si legge: «Il Drug Controller General of India (Dcgi) permette alle aziende di produrre e vendere medicine ayurvediche fintanto che siano descritte nei testi antichi. A differenza delle medicine moderne, il Dcgi non richiede che per le medicine ayurvediche, prima di essere messe in commercio, siano prodotti dei test clinici che ne provino la sicurezza e l’efficacia. La logica dietro questa scelta è che secoli di utilizzo [di tali ricette] siano sufficienti per sostenere la legittimità di questi medicinali. La legge, così formulata, ha permesso al mercato delle medicine a base di erbe di fiorire, promuovendo compagnie come l’Himalaya Drug Company e la Dabur».

Si tratta di due brand onnipresenti nei droghieri e nelle farmacie del subcontinente che offrono una linea di prodotti variegata, dalla parafarmacia a creme per la cura del corpo, dentifrici, saponette e shampoo, fino pastiglie per il mal di stomaco, diarrea, tosse, raffreddore e malattie al fegato. Tutto marchiato come «ayurvedico», la ricetta di erbe divina che si fa prodotto di massa.

Nonostante i prodotti ayurvedici per la cura del corpo negli anni si siano ritagliati una fetta di mercato consistente – il dentifricio Dabur Red, a base di menta, chiodi di garofano e zenzero, è il terzo dentifricio più venduto in India – la dimensione prettamente medica del fenomeno fatica a decollare.

Il mercato dei prodotti ayurvedici, secondo le stime governative, in India vale più di due milioni di euro all’anno, ma negli ultimi tre le esportazioni sono rimaste bloccate a quota 270mila euro, anche a causa della diffidenza internazionale verso prodotti giudicati troppo poco sicuri, se non nocivi. Uno studio pubblicato nel 2008 dalla US National Library of Medicine ha rilevato che il 20 per cento delle medicine ayurvediche acquistate via internet prodotte in India e negli Stati uniti contengono livelli di piombo ben superiori alla soglia di sicurezza.

Nei primi anni duemila a una serie di donne in sei stati americani è stato diagnosticato un avvelenamento da piombo dovuto all’assunzione di «pillole per la fertilità ayurvediche», prodotte in India. Ciò non significa che tutta la medicina ayuvedica e tutte le centinaia di cliniche ayuvediche sparse nel paese siano disseminatrici di intossicazioni da metalli pesanti, anzi. Tra i trattamenti più quotati e, nonostante tutto, apprezzati tra gli stranieri in India, c’è il famigerato panchakarma: un trattamento di disintossicazione del corpo che prevede sessioni di massaggio e medicine alle erbe da assumersi non senza essersi sottoposti a una dieta ad hoc fatta di digiuni e ingerimento di burro chiarificato – ghee, in hindi, citato diffusamente sempre nel Mahabharata come unguento sacro derivato dal latte di mucca, sacra – in dosi progressive. Chi l’ha fatto racconta di pori e orifizi corporei che, dopo una settimana, iniziano a spurgare burro, tralasciando la descrizione orripilante di consistenza e colore delle feci; secondo l’ayurveda, sono le tossine che abbandonano il corpo, sgombrando il campo per gli effetti curativi dei mix di erbe prescritti.

Nel tentativo di contrastare la diffidenza internazionale, chissà se volontariamente o per coincidenza soprannaturale, l’India ha trovato un nuovo alfiere della medicina tradizionale nel controverso santone Baba Ramdev. 50 anni, barba e veste arancione d’ordinanza, Ramdev si è formato spiritualmente negli ashram di Haridvar e da poco più di dieci anni ha fondato assieme ad Acharya Balkrishna (socio di maggioranza, manager e praticante ayurvedico) il gruppo Patanjali, con l’obiettivo di promuovere nel mondo yoga e ayurveda.

Grazie alla notorietà di Ramdev – che vanta un programma televisivo di esercizi yoga sulla tv satellitare oltre a interventi, tanto puntuali quanto non richiesti, su praticamente ogni questione di interesse pubblico in India – dal 2012 al 2015 Patanjali ha più che decuplicato il proprio fatturato (oggi solo il comprato ayurveda della compagnia vale 740 milioni di dollari), facendosi largo nel settore dei beni di largo consumo a colpi di gigantografie, spot pubblicitari e arruolamento entusiastico nella campagna modiana per il rilancio dell’India come brand internazionale. Baba Ramdev, a più riprese lodato del ministro dell’Ayush Shripad Naik per la propria opera di diffusione della tradizione medica indiana, è soprattutto fonte apparentemente inesauribile di rivendicazioni e dichiarazioni quantomeno discutibili, tra cui si annoverano: la riscoperta, tributata al socio Balkrishna, della mitica erba sanjeevani citata nel poema epico Ramayana, grazie alla quale il dio Hanuman riuscì a curare il guerriero Lakshman ferito da una freccia.

Oggi l’estratto di sanjeevani, «integratore per il sistema immunitario», è venduto online da ramdevproducts.com in pasticche da 20 e 40 mg a meno di dieci dollari, senza che sia stato valutato dalla United States Food and Drug Administration; cure efficaci, attraverso esercizi yogici, contro cancro, aids e omosessualità, considerata dal guru una malattia mentale; il mancato conferimento del premio Nobel, senza specificare in che campo, poiché «nero» di carnagione; sostituire l’educazione sessuale nelle scuole indiane con lezioni di yoga.
Ramdev è solo la punta dell’iceberg di un sistema medico complesso che, alla sfida di compenetrarsi col resto della medicina occidentale traendone benefici certi sia economici che scientifici, risponde puntando i piedi, negando un dialogo e una collaborazione costruttiva.

In Cina, con un approccio diametralmente opposto, la chimica Tu Youyou, prendendo spunto da un compendio sulle erbe mediche redatto da Ge Hong nel quarto secolo dopo Cristo, negli anni ‘60 iniziò a sperimentare in laboratorio gli effetti di oltre 240mila composti di erbe tradizionali. Uno, a base di estratto di artemisia annua, si rivelò efficace contro la febbre malarica.

Nel 1981 Tu presentò il proprio studio all’Organizzazione mondiale della sanità, che in risposta adottò il principio attivo dell’artemisinina come base per i farmaci antimalarici di nuova generazione.

Nel 2015, dopo aver salvato milioni di vite, lo studio sull’artemisinina valse a Tu il premio Nobel per la medicina. Nonostante la carnagione «gialla».