Dagli anni Novanta Arnaud e Jean-Marie Larrieu costruiscono un cinema originale all’interno della produzione francese, inscritto nella commedia ma non solo, anche nella musica, nella canzone. Tralala, il loro film più recente e ancora inedito in Italia, parla di identità, menzogne necessarie, sostituzioni di persona, vagabondaggi e miraggi che portano il cantante di strada Tralala (interpretato da Mathieu Amalric) da Parigi a Lourdes sull’onda di un’apparizione. Ne abbiamo parlato con Arnaud Larrieu che, insieme al fratello Jean-Marie, sarà domani sera (il 23 febbario al cinema Massimo, ore 21) al festival Seeyousound di Torino per presentare il film in anteprima italiana.

Mathieu Amalric in «Tralala»

«Tralala» è girato e ambientato durante la pandemia. Le mascherine sui volti, però, non rappresentano solo un segno di attualità, bensì anche, o soprattutto, un ulteriore elemento del gioco di mascheramento e finzione attuato dai personaggi e che è al centro del film.

Abbiamo scritto la sceneggiatura un anno prima dell’inizio della pandemia e quindi in essa non c’era nessuna traccia delle mascherine. Poi, è arrivato il confinamento. Abbiamo girato nel settembre 2020 durante il breve periodo di libertà prima delle nuove chiusure. La nostra idea era di ancorare il film alla realtà ambientale. Quando, facendo i sopralluoghi, abbiamo visto che a Parigi la gente indossava ovunque le mascherine ci siamo detti che non potevamo eliminare quell’aspetto e che andava integrato con la finzione affinché rimanesse evidente il radicamento nella realtà. E infine, sì, il mascheramento si è rivelato adatto a quel che il film narra, lo ha evidenziato ancora di più.

Il film è attraversato da un tempo sospeso, non lineare, si potrebbe chiamarlo un «tempo del cinema». Cosa significa per lei e Jean-Marie il tempo?

Un’immagine di finzione cosa dice del tempo che è destinata a raccontare? Tralala racconta delle cose molto antiche, ma non nel senso di datazione. Le storie delle apparizioni, delle rivelazioni nelle grotte hanno quasi una dimensione atemporale, nell’ordine del mito, dell’origine. Cose non vecchie, ma molto antiche. D’altronde, in Tralala tutto capita in tre notti e quattro giorni, eppure è curioso perché fin da quando Tralala viene scambiato per un altro, per Pat, per il figlio scomparso, si crea una sorta di passato, al quale non si torna mai, ma che avvolge tutti dando la sensazione che il tempo si espanda. Si potrebbe quasi avere la sensazione di avere vissuto un’epopea in un arco di tempo così ristretto. Crediamo molto alla narrazione, al credere.

Al credere attraverso la finzione assoluta…

Sì, far credere qualcosa di impossibile. Questa è la commedia musicale. E Tralala è davvero un condensato di ciò e in più è girato a Lourdes, la nostra città natale. Ma con questo film anche noi abbiamo scoperto una Lourdes inedita. Siamo cresciuti nella parte alta della città, simile a tante altre di provincia, e in quella bassa, chiamata la città degli alberghi, ci andavamo di rado. Per il film siamo entrati in hotel che conoscevamo solo dall’esterno e ci siamo sentiti, bizzarramente, un po’ come Tralala che entra in quei posti per la prima volta.

Lourdes diventa un vero e proprio set all’aria aperta, oltre che negli interni. Un luogo da re-inventare.

Da quando ci furono le prime apparizioni, è come se un set si fosse costruito attorno a Lourdes. Durante la pandemia, però, i pellegrinaggi sono pressoché scomparsi e così siamo stati liberi di «addobbare» gli esterni come volevamo, trasformarli in una serie di studi confinanti nei quali muoverci a nostro agio passando dall’uno all’altro. Il personaggio di Tralala ha qualcosa di Chaplin, ma Chaplin ricostruiva una strada per farla sembrare reale, a noi invece interessava partire da una base quasi documentaria e, come dice lei, re-inventarla.

Mathieu Amalric ha interpretato cinque vostri film. Cosa vi ha sedotti in lui, fin dall’inizio?

È un rapporto che si è evoluto. Negli anni Novanta capitava di incontrarci in festival di cortometraggi. La svolta è avvenuta quando Mathieu è venuto a vedere il nostro primo lungometraggio Fin d’été e ci siamo parlati, gli era piaciuto molto e avrebbe voluto lavorare con noi. Stavamo cercando l’attore per interpretare il nostro film seguente, La brèche de Roland, e non era semplice, in più il film andava fatto in fretta, tutto era pronto. Abbiamo proposto a Mathieu la parte e da lì tutto è iniziato. Per noi lui incarnava soprattutto l’immagine dell’attore intellettuale, invece durante le riprese di La brèche de Roland lo abbiamo scoperto anche molto fisico, concreto. Ed è nata così l’idea di Un homme, un vrai, la cui sceneggiatura è stata, per la prima volta, ispirata dall’attore. Mathieu non ha fiducia in se stesso, ma accetta le sfide, non si tira indietro. In questo sta il suo coraggio, e amiamo molto questo suo aspetto.

Che rapporti avete con il cinema francese musicale del passato?

Quando abbiamo deciso di fare una commedia musicale e di girarla a Lourdes il riferimento immediato è stato Jacques Demy, vale a dire la provincia, quello che chiamiamo il «romanticismo provinciale», rappresentato in tutte le sceneggiature di Demy fatte di persone sparite, che non riescono a incontrarsi, che sono partite, che tornano. Demy è stato un immenso sostegno mentale.