Il festival si è chiuso, e come sempre la domanda che rimbalza è: che festival è stato questo numero 75 dichiarato nelle intenzioni della direzione artistica di Giona A.Nazzaro e degli organizzatori come quello del rilancio e del rinnovamento verso un cinema del futuro? Nella cittadina che appare sonnacchiosa tra strade squadrate vuote e semafori infiniti – sovradimensionati al traffico locale – gli addetti ai lavori industry e stampa internazionali sono già partiti in vista del ferragosto ( da non sottovalutare anche i prezzi del luogo) e – per molti – dell’inizio fra due settimane della Mostra del cinema di Venezia, in sala è rimasto per lo più il pubblico locale che a sentire le lingue parlate arriva da ogni Cantone complici appunto le ultime vacanze prima della riapertura delle scuole. Dunque si può parlare di un successo almeno nell’obiettivo di ritrovare gli spettatori dopo la pandemia? Chissà.

Numeri a parte ci sono i film e lì le cose appaiono meno lineari.Una narrazione tra figure femminili in bilico o sospese in un conflitto e scontri famigliari Si è molto parlato della retrospettiva di Douglas Sirk che oltre a essere «un rifugio quando il programma non piace» come ha detto presentando uno dei film il regista svizzero Lionel Baier, è da sempre uno dei punti di forza del festival di Locarno, al di là cioè delle direzioni – questa era particolarmente riuscita grazie anche alla cura di Bernard Eisenchitz e di Roberto Turigliatto.

Non si può che rinnovare al festival la richiesta di sottotitolare le copie, che è un gesto d’attenzione minimo per il pubblico, certo non hanno un problema di budget, e una scrittura raffinata come è quella nei film di Sirk ha bisogno di essere compresa pienamente. Sul resto se da una parte il programma sia nel concorso che nei Cineasti del presente – con differenze a volte poco visibili – ha scelto il cinema «d’autore indipendente» (spesso con registi poco conosciuti al di fuori del ristretto ambiente dei programmatori di festival internazionali), dall’altra come ormai accade da diversi anni ha dovuto puntare su qualche nome di richiamo per gli sponsor e anche per un «appeal» mediatico che altrimenti si fatica a ottenere, optando al tempo stesso per formule e modalità da festival mainstream – compresa la premiazione a entrata libera ma sottoposta alla diretta tv (sovradimensionata anch’essa) – molto meglio era quella solo per la stampa più informale seguita poi dalla serata in Piazza Grande.

«Gigi la legge» di Alessandro Comodin

SI FA FATICA anche a cogliere la «trama» degli artisti insigniti di qualche premio speciale – che va dalla fantastica Laurie Anderson a Costa Gavras passando per Kelly Reichardt, decisamente è il suo anno e non si può che esserne felici dopo la Carrozza d’oro e la magnifica retrospettiva al Centre Pompidou in attesa dell’uscita in sala del suo nuovo film – presentato in concorso al festival di Cannes – Showing up in cui ha ritrovato Michelle Williams.

Con la regista è arrivato anche Todd Haynes, ospite della retrospettiva Sirk per il suo Far from Heaven ispirato al sirkiano All That Heaven Allows – i due artisti hanno lavorato insieme, e per scoprire tutto su Kelly Reichardt e le sue traiettorie poetiche, consiglio il volume di Judith Revault d’Allonnes, L’Amérique retraverseé, edito in occasione della personale al Pompidou che è un esempio splendido di come raccontare il mondo di un autore.

La redazione consiglia:
Segreti e fantasmi nella giungla sospesa di un vigile di campagna Il Pardo d’oro lo ha vinto Julia Murat (il suo Found Memories era stato premiato alle Giornate degli autori nel 2011) con Regra 34, il premio della Giuria è andato a Gigi la legge di Alessandro Comodin, a guardare la decisione della giuria – presieduta dal produttore svizzero Michel Merkt con i cineasti Laura Samani, Alain Guiraudie, Prano Bailey-Bond e il produttore William Horberg – su 17 titoli ne sono piaciuti tre, e uno Tengos suenos electricos di Valentina Maurel si porta a casa la migliore regia e il premio all’attrice (Daniela Marin) e all’attore (Reinaldo Amien Gutierrez) protagonisti.

Lo stesso accade nel palmarés dei Cineasti del presente – in giuria la produttrice svizzera Annick Mahnert, la regista Gitanjali Rao, il produttore Katriel Schory: How is Katia di Christina Tynkevych ha ricevuto il premio speciale della giuria e quello all’attrice, Anastasia Karpenko, il primo premio è andato a Nightsiren di Tereza Nvotovà e il miglior regista emergente a Safe Place di Juraj Lerotic anche premio per l’opera prima. Certo spesso coi premi si può essere in disaccordo – vale per quello dei Cineasti del presente, un film in cui l’ansia del «messaggio» contro patriarcato e misoginia limita le potenzialità costringendo la storia in schemi piuttosto pre-confenzionati – la ragazza che torna nel piccolo centro dove è nata ma è ormai estranea, le vecchie leggende di stregoneria, le nuove superstizioni. Forse rientra nel «genere», altro riferimento oggi amatissimo dai festival e però il risultato è quello di una narrazione piatta e punteggiata dai luoghi comuni.

Ciò che dicono inoltre i premi è che a vincere sono i film con una «storia», cioè con soggetti più scritti o quantomeno più mediati rispetto a una ricerca formale – come il film di Helena Wittmann Human Flowers of Flesh, autrice scoperta dalla Sic quando il delegato generale era Nazzaro, quasi tutti femminili a parte Gigi la legge (che non è nemmeno solo un film di storia ma di paesaggi e di misteri) e Safe Place che è un racconto alla prima persona in cui Lerotic, il regista, interpreta se stesso in un’ autobiografia famigliare di relazioni dolorose, riscritte da un tentato suicidio, a cui si avvicina nella distanza narrativa.Poco riconosciuti i lavori con una ricerca formale come quello di Helena Wittmann Sono queste donne irrequiete, dolenti, si interrogano su se stesse o si confrontano con accadimenti traumatici (come in How is Katia?) o con vicende famigliari piene di conflitto (la famiglia, questo eterno ritorno).

La protagonista di Regra 34 è una giovane studentessa di legge che lavora sugli abusi contro le donne e al tempo stesso frequenta il mondo del sadomaso. Una contraddizione? In filigrana c’è il Brasile di Bolsonaro con la sua sempre più cruda oppressione sociale, e il bordo tra intimità e «immagine pubblica» si fa terreno in cui esplorare queste imposizioni sociali forse con una dicotomia di troppo.

LA GIOVANISSIMA Eva al centro dei Sogni elettrici di Maurel è invece un personaggio che deve misurarsi con la famiglia, i genitori separati, la madre che vuole vendere la vecchia casa, il gatto sbalestrato e pure lui isterico per i cambiamenti. Il padre violento e infantile e lei ugualmente piena di una rabbia che la porta a detestare il mondo, quella condizione casalinga di spazi che le negano l’intimità. Intorno un paesaggio caotico di fili di alta tensione che si intrecciano, un’elettricità sempre sul punto di esplodere come quella di coloro che vi abitano. La brutalità dei legami famigliari è evidente anche se sottotraccia, si aspetta che deflagri in ogni momento in quella società così maschile. Tutto vero però anche qui questa necessità del presente di porre il femminile al centro ne ingabbia la forza che è nell’ambiguità e nelle sfumature, e prima di tutto in una forma, in un’immagine capace di imporsi – e di imporre i sentimenti sopra ogni script. Un cinema giovane e indipendente non dovrebbe perderlo di vista almeno per non invecchiare troppo presto.