A lungo tempo considerati vittime «incolpevoli» dei conflitti armati, e come tali variamente osservati (o volutamente dimenticati) dagli adulti, i bambini entrano di peso nella storiografia più recente dal momento che delle guerre sono stati riconosciuti come diretti e immediati protagonisti.
Benché in posizione spesso subalterna, in ragione dell’intervento manipolatorio dei meno giovani, hanno assunto quindi una doppia veste: da un versante quella di attori del confronto, sia come parte attiva, poiché variamente utilizzati in quanto combattenti, sia come parte passiva, destinataria tristemente privilegiata delle violenze più atroci; dall’altro quella di testimoni, con una specifica dignità, delle trasformazioni accelerate che le guerre introducono nel corpo delle società che ne vengono investite. Nell’uno come nell’altro caso il sovrappiù che ci deriva dall’attenzione verso il coinvolgimento dell’infanzia è l’immedesimazione prospettica che essa sa offrire del mutamento violento e radicale attraverso lo sguardo dei bambini. Si ha a che fare a pieno titolo con agenti di esperienza e di memoria. Immedesimarsi in essi non risponde esclusivamente a un esercizio etico e morale, in sé pur necessario, ma anche a un’esigenza interpretativa che si riannoda alla storia sociale, a quella orale, a quella di genere. Soprattutto, alla storia delle istituzioni culturali e alle diverse sensibilità con le quali le società guardano a loro stesse e ai propri cambiamenti.

IN ALTRE PAROLE, la traiettoria dell’infanzia è parte stessa del laboratorio dello storico proprio perché la guerra, dal momento in cui sembra cancellare le residue istanze di espressione dei soggetti più fragili, tali perché meno voce hanno da sempre, costituisce in sé anche un processo di generale infragilimento delle comunità che ne vengono attraversate. Verrebbe quindi da dire che nell’immagine (e nell’immaginario) dell’infanzia in guerra, ripetutamente riproposta anche dai grandi mezzi di comunicazione, cada quel senso residuale di verginità che si vorrebbe attribuire alla violenza in quanto legittimo esercizio di volontà. Ma non è sempre così, semmai prestandosi a chiavi di interpretazioni tra di loro anche molto diverse, se non antitetiche.

BASTI PENSARE che il colpire la popolazione civile, e con essa le classi di età più giovani, è spesso un obiettivo prioritario dell’agire bellico. Poiché l’infanzia rappresenta ciò che una società potrebbe divenire, il suo cancellarla o il vincolarla ai calcoli dell’aggressore implica anche l’indirizzare lo sviluppo di quelle comunità che si intendono soggiogare con il ricorso alla forza bruta. Bruno Maida, studioso dell’infanzia e ricercatore di storia contemporanea all’Università di Torino, prosegue con il suo nuovo volume L’infanzia nelle guerre del Novecento (Einaudi, pp. 344, euro 30) una riflessione avviata già da molto tempo sullo statuto della medesima nei conflitti di quel secolo. Lo fa adottando due punti di vista distinti ma tra di loro frequentemente intrecciati: il racconto sui bambini e il racconto dei bambini.

NEL PRIMO CASO adotta lo sguardo prospettico degli adulti, la verticalità sospesa tra estrema protezione e brutale abbandono dei più piccoli; nel secondo ribalta le prospettive, rileggendo la brutalità, lo spiazzamento, l’inenarrabile con voce e racconti di bimbo.
Il testo è saldamente articolato in sette capitoli tematici. Il primo di essi si confronta con il rapporto tra infanzia e guerra. Il secondo lavora sul corpo legislativo, introdotto soprattutto durante il secolo trascorso, nel merito della tutela dei civili. I quattro capitoli successivi adottano la prospettiva cronologica e più strettamente storica, inserendovi lo sfaccettato tema della militarizzazione di infanzia e gioventù nei processi bellici del Novecento, come anche di questi ultimi due decenni.

L’ULTIMO, infine, si cala ancora una volta nel vissuto della narrazione infantile di sé, come anche del contesto e, soprattutto, della memoria della «desertificazione» che le guerre consegnano a coloro che le hanno viste, vissute e condivise.
L’autore esplicita, pagina dopo pagina, una grande sensibilità, non solo professionale, rispetto all’oggetto della sua indagine. Consegna quindi un libro che sarebbe piaciuto a Gianni Rodari e a Italo Calvino, due grandi volutamente mai troppo cresciuti.