L’implacabile determinazione nel conservare un ritmo produttivo elevato ha fatto di Woody Allen non tanto l’autore antihollywoodiano che si suoi seguaci più acritici venerano, quanto il più classico dei professional hollywoodiani.
Nella strategia operativa alleniana non esistono i film brutti o belli quanto l’idea di (eco)sistema produttivo che si autoalimenta di titolo in titolo come in una sorta di catena di montaggio virtuosa. Ovviamente in una sistema simile l’idea stessa che ci possano essere dei film che si producono solo in funzione del modello è parte integrante della strategia stessa.

Motivo per cui quando Allen all’interno di questa struttura ferrea e autoimposta riesce a realizzare un film che scavalca l’aurea mediocrità da lui stesso individuata come limite del suo limite (per così dire) inevitabilmente si ripete l’incanto che ha accompagnato i suoi film degli anni Settanta e soprattutto quelli della prima metà degli Ottanta.
La ruota delle meraviglie, il secondo film realizzato in collaborazione con Vittorio Storaro dopo Café Society, è un’opera articolata e complessa, espressione purissima del pensiero di Allen e del suo contemplare le aporie morali dell’agire umano.

La tragedia greca declinata in chiave lumpenproletaria all’ombra delle giostre di Coney Island è l’occasione per Allen di dare corpo a uno dei personaggi femminili più complessi e stratificati di tutta la sua cinematografia. Ginny (Kate Winslet), moglie di Humpty (Jim Belushi), s’innamora del bagnino Mickey (Justin Timberlake) che a sua volta, dopo un fuoco fatuo di pura passione per Ginny, s’innamora di Carolina (Juno Temple), figlia di Humpty, in fuga dal marito gangster Frank che le mette due scagnozzi alle sue costole (Tony Sirico e Steve Schirripa, entrambi provenienti da I Soprano).

Immersa nei colori caldissimi di Storaro (il film sembra quasi la versione neorealista di Un sogno lungo un giorno, per il modo in cui il cinematographer costruisce i suoi punti luci e le diverse illuminazioni, senza contare la straordinaria economia dei movimenti di macchina) La ruota delle meraviglie riesce sin dai titoli di testa ad abbattere le resistenze dello spettatore recalcitrante.
La maestria di Allen nel gestire dialoghi e situazioni, il leitmotiv del bambino piromane, il ritratto di una classe operaia italiana che non esiste e le velleità intellettuali di bagnini che sognano Eugene O’Neill, compongono il quadro complesso di un’umanità lacerata e oppressa dalla precarietà economica.

Kate Winslet, che regge la scena con la medesima potenza di una Ginger Rogers diretta da Gregory La Cava incarna, nell’alone di luce che le costruisce Storaro, un ritratto femminile di sconcertante urgenza. La precisione calligrafica con la quale Allen costruisce il suo mondo permette agli interpreti di dare vita a dei personaggi che nella vitalità di un testo scoppiettante di guizzi e intelligenza pura si rivelano come contemporanei dei rappresentanti delle elite liberal smarriti sotto il tendone del circo dell’America di Trump.

Eppure, ciò che rapisce i sensi e mette a dura prova qualsiasi tentativo di distacco critico, è la olimpica leggerezza e precisione con la quale Allen compone un film tutto composto di scene madre invisibili, inanellate le une alle altre, per le quali centinaia di registi darebbero un braccio. Woody Allen che ha sempre funzionato soprattutto in relazione che gli permetteva la libertà e la fiducia nutrita nei confronti dei suoi collaboratori, sembra essere decisamente rinato all’ombra delle luci del genio di Vittorio Storaro.