C’è un cimitero molto particolare nei pressi del campo profughi di Shatila, a Beirut. È il cimitero dell’Olp e della resistenza palestinese. Più di tutto è il cimitero di quella che negli anni ’60 e ’70 è stata la «Rivoluzione palestinese». I corpi di coloro che vi sono sepolti, uomini e donne di ogni angolo del mondo, non sono i resti di personalità politiche e di semplici individui che hanno combattuto assieme ai palestinesi.

SONO LA TESTIMONIANZA di un’idea di trasformazione in senso progressista del Medio oriente all’interno della lotta anticoloniale che ha agitato milioni di uomini nei vari continenti. Per Israele quel progetto e quella lotta sono stati solo «terrorismo». Per i palestinesi invece hanno significato un protagonismo di eccezionale portata storica, politica e diplomatica che ha forgiato il loro destino. Quella storia viene raccontata con intendimenti e tagli diversi in due volumi pubblicati di recente: Fplp, Fronte popolare per la Liberazione della Palestina: tra ideologia e pragmatismo, di Stefano Mauro (Edizioni Clandestine, pp. 190, euro 12) e Arafat. Il sovrano senza Stato, di Stefania Limiti (Castelvecchi, pp. 240, euro 17.50).

Mauro, giornalista che si occupa di Medio oriente, esamina il percorso che il Fronte popolare, nato nel 1967 per iniziativa di George Habbash, nazionalista ma con forti radici marxiste, ha compiuto nei 50 anni e oltre di vita, nell’Olp, in Medio oriente, nei Territori occupati e nei campi profughi palestinesi, adeguandosi alla realtà senza rinunciare ai principi di uguaglianza sociale ed economica, di parità di genere e dei diritti delle donne palestinesi. Un tragitto fatto non solo di lotta armata, come vuole una narrazione di parte, ma di analisi politica e di progettualità sociale. Testo divulgativo sulla storia della principale formazione della sinistra palestinese, affronta le ragioni del suo scontro con Israele e del conflitto con il partito rivale Fatah e Yasser Arafat prima e dopo gli Accordi di Oslo del 1993, così come le differenze profonde con gli islamisti di Hamas. Guarda però anche al presente e delinea alcuni scenari futuri dell’organizzazione guidata da Ahmed Saadat incarcerato in Israele, affidandosi alla pasionaria palestinese e dirigente del Fplp Leila Khaled. Nell’intervista presentata in modo originale come prefazione del libro, Khaled rifiuta la soluzione dei «Due Stati» (Israele e Palestina) che, visti i rapporti di forza, renderebbero l’entità palestinese soltanto un bantustan, e propone la creazione di «una società laica e democratica in tutta la Palestina (storica, ndr) che garantisca a tutti giustizia e uguaglianza, poiché questo è l’elemento centrale della nostra lotta anziché quanti Stati ci siano in Palestina».
A Yasser Arafat che al contrario ha portato avanti fino al giorno della morte – nel novembre 2004, per una misteriosa malattia mai accertata – il progetto dei Due Stati, ossia del compromesso territoriale con Israele, è rivolto il lavoro di ricerca e descrizione di eventi noti e meno noti, talvolta segreti, svolto da Stefania Limiti, giornalista e saggista che alle questioni mediorientali ha già dedicato altri suoi libri.

COGLIENDO L’OCCASIONE dei 15 anni dalla scomparsa di Abu Ammar, come era anche noto Arafat, Limiti racconta il leader e la storia della causa palestinese nella sua dimensione locale, regionale e globale. E lo fa senza sconti e con obiettività, prendendo la distanza delle semplificazioni partigiane, ai limiti della falsificazione storica, in cui oggi si cimentano analisti veri o presunti delle vicende mediorientali e palestinesi. «Arafat è stato un grande leader del Novecento e in Italia abbiamo perso il senso di questa leadership», spiega Limiti che prosegue: «Arafat è stato un leader che con tutte le sue contraddizioni ha saputo dare alla questione palestinese la dimensione di tragedia nazionale di un popolo. Ha rappresentato l’unità di un popolo impedendo che venisse dimenticato e costretto a una nuova dispersione». Dell’eredità politica di Arafat, aggiunge l’autrice, oggi resta «il fatto fondamentale che il suo popolo non sia solo una somma di individui ma che si riconosca come popolo». Arafat non era un ideologo o un uomo di cultura, sottolinea, «la sua capacità di rappresentare l’esigenza di una patria per il suo popolo è sempre presente, nonostante le sofferenze e le difficoltà che oggi affrontano i palestinesi»; ha contribuito alle divisioni interne palestinesi arrivando agli Accordi di Oslo del 1993 con Israele solo con il sostegno di una parte del movimento palestinese e non ricercando, come avrebbe dovuto e potuto, una intesa con le varie anime del suo popolo. E ha perso la scommessa della costruzione di una entità statale vera, al di là delle politiche contrarie di Israele. Allo stesso tempo l’unità del popolo cui si appellava era e resta elemento centrale per i palestinesi decisi, nonostante le politiche di Israele, l’opposizione degli Usa e le ambiguità dell’Europa e del mondo arabo, a realizzare le sue storiche aspirazioni.