«Non è lui mio marito», il tono di Lydia Tesfu è fermo. Il presidente della seconda sezione della Corte d’Assise di Palermo, Alfredo Montalto, si rivolge nuovamente alla donna, la invita a guardare dritto verso la telecamera. Lei non esita: «Non è mio marito», ripete. Davanti a lei, collegata in videoconferenza dalla Svezia, c’è l’eritreo sotto processo e detenuto da due anni e mezzo. Per la Procura è Medhanie Yedhego Mered, uno dei più pericolosi trafficanti di essere umani. La donna chiamata a testimoniare è indicata proprio dall’accusa come la compagna dell’uomo, ma lei non lo riconosce nel volto dell’imputato.

Per la difesa è un assist fondamentale; l’avvocato Michele Calantropo sostiene da tempo che l’uomo in manette, e detenuto ingiustamente, non è il «generale», come viene chiamato il trafficante, ma Medhanie Tesfamarian Behre, che non ha nulla a che fare con lo sfruttamento dell’immigrazione e dunque sarebbe vittima di un clamoroso abbaglio da parte degli inquirenti.

Un duello, quello tra accusa e difesa che va avanti a colpi di scena: tra intercettazioni, foto, testimonianze e prove, come quella del Dna non acquisita in dibattimento, che stanno segnando un processo sui cui sono accesi i fari anche a livello internazionale. «C’è il nome di mio marito tra gli imputati ma io non lo vedo», ribadisce la donna. Che poi guarda una foto che le mostra l’avvocato Calantropo: «Sì, questo è Medhanie Yedhego Mered, mio marito». L’avvocato decide di non rivolgerle altre domande.

Proprio il legale, la scorsa estate, in Svezia aveva prelevato il Dna dal figlio di Lydia Tesfu avuto con il trafficante. Il risultato del test in laboratorio è stato inequivocabile: quel bambino non è figlio dell’uomo rinchiuso in carcere. Ma la prova non è stata accolta dalla Corte. L’accusa, rappresentata in aula dai pm Calogero Ferrara e Claudio Camilleri, incalza la donna. «Qual è il numero di suo marito, da quanto non lo vede?». E lei: «Non ricordo il numero e non lo vedo da quando siamo venuti in Svezia». Era il 2014. «Siete andati insieme in Svezia?», chiede il pm. «No», risponde. La Corte decide di interrompere la testimonianza. «È tutto», dice il presidente Alfredo Montalto. Lydia Tesfu va via. L’imputato rientra nel gabbiotto: volto contrito, trattiene a stento le lacrime, scuote la testa.

In aula, in due anni di processo sono stati sentiti la madre dell’imputato, la sorella, una giornalista e altri eritrei. Ognuno ha sostenuto che l’uomo dietro alle sbarre non sarebbe il «generale». Anche il ministero degli Esteri eritreo, a gennaio dell’anno scorso, dichiarò che il detenuto non è Medhanie Mered e che il suo nome è Medhanie Tesfamariam Berhe, confermando l’autenticità del documento d’identità, che l’avvocato Calantropo ha consegnato ai giudici. Per la Procura invece si tratta proprio del “re” del traffico di uomini e per dimostrarlo ha puntato sulla perizia fonica delle intercettazioni fatte dal servizio centrale operativo della polizia.

L’uomo sotto processo venne fermato il 24 maggio di due anni fa in Sudan dalla polizia locale, su indicazione delle autorità italiane ed inglesi. Per gli inquirenti, convinti di avere preso la persona giusta, Medhanie Mered è il primo grande trafficante a finire in una prigione europea: è accusato di aver organizzato decine di viaggi dalla Libia verso la Sicilia, alcuni conclusi con diverse vittime. Tre anni fa venne intercettato mentre diceva al telefono: «Ho lavorato bene, ho fatto partire 7.000, 8.000 persone». In Sudan, Mered Medhanie andava in giro con un blindato. E si lamentava con i suoi complici rimasti in Libia: «Sono davvero stressato, tutta colpa del lavoro».

Le intercettazioni della polizia descrivono un uomo cinico e spregiudicato quando parla dei migranti, gentile e premuroso quando si occupa dei figli, che si trovano in Svezia con la moglie. Ma per la difesa sotto processo c’è l’uomo sbagliato, il vero re dei trafficanti sarebbe ancora libero di gestire i suoi immensi affari sulla pelle dei migranti.