Dei sampietrini si sollevano dalla strada, e in rilievo vanno a comporre la parola suburra: una intro deliberatamente «coatta» che ci porta subito nella città eterna, protagonista dal centro all’estrema periferia della nuova serie targata Netflix – Suburra appunto, prequel del film del 2015 di Stefano Sollima – e scritta da un gruppo di sceneggiatori, tra i quali Barbara Petronio e Nicola Guaglianone, per la regia di Michele Placido, Andrea Molaioli e Giuseppe Capotondi.

C’è il mondo di sopra, quello di sotto e poi il mondo di mezzo – come spiegava Carminati nella conversazione intercettata dai carabinieri che ha dato il nome all’inchiesta poi diventata nota come Mafia Capitale. Al mondo di sotto appartengono Aureliano (Alessandro Borghi) e Spadino (Giacomo Ferrara), rampolli di due famiglie criminali di Ostia: gli Adami e gli Anacleti. Ai loro traffici illegali si aggiunge però anche Lele – «bravo» ragazzo, il padre è un poliziotto illuso che lui stia per laurearsi. Ma in Suburra c’è anche il «sovramondo»: sono le aule del consiglio comunale di Roma e il Vaticano – all’ombra di San Pietro e del Campidoglio non mancano altri traffici, segreti, accordi sottobanco con persone che è meglio non nominare.

In apertura della prima puntata il sindaco di Roma – come lo stesso Ignazio Marino nel 2015 – sta rassegnando le sue dimissioni. Grande è la confusione sotto il cielo, e la situazione è quindi eccellente per il mondo di mezzo: per Samurai (Francesco Acquaroli), il burattinaio che lusinga e minaccia, mette in contatto i due mondi, tesse le trame tra di loro e gli «amici» di cui nessuno parla – ma che tutto vedono: i mafiosi siciliani.

Dopo Gomorra e Romanzo criminale (tratta come Suburra da un romanzo di De Cataldo), si cerca di mettere ulteriormente a punto gli ingredienti di una formula collaudata, nella quale il genere è il mezzo con cui raccontare le miserie criminali italiane. Spesso a raccontare non sono però i personaggi, le loro bassezze, ambizioni, dolori, ma i dialoghi – le spiegazioni imposte dall’alto del loro agire.

Basta così qualche offerta di Samurai, un botta e risposta che spiega le frustrazioni professionali del politico idealista Amedeo Cinaglia (Filippo Nigro) – «La politica è l’arte del possibile», «Sono un povero coglione con degli ideali» – per fare sì che il consigliere comunale ceda alle lusinghe del mondo di mezzo, e accetti di pilotare il dibattito comunale per la destinazione di alcuni terreni di Ostia.

Meglio il racconto del mondo di sotto – anche se la recitazione è spesso troppo sopra le righe – quello che Carminati chiamava anche «dei morti»: i padroni del litorale di Ostia burattini loro stessi in un gioco che li ha destinati alla sconfitta.