Sull’ultimo numero della rivista «Liberties» Benjamin Moser ha pubblicato un articolo provocatorio già a partire dal titolo: Against Translation, «Contro la traduzione».
Premessa: autore nel 2019 di una biografia di Susan Sontag che lo scorso anno gli ha valso il Pulitzer, Moser è un traduttore molto noto. In particolare, è stato lui a far conoscere al mondo anglofono l’opera di Clarice Lispector.

Alla grande scrittrice brasiliana ha dedicato il suo primo libro, anche questo una biografia (Why This World, Oxford University Press 2009), che ha ricevuto reazioni molto positive. Proprio in seguito al successo di questo lavoro, la casa editrice New Directions lo ha scelto come curatore di un progetto ancora in corso che prevede la traduzione o la ritraduzione in inglese dell’opera integrale di Lispector. Non solo: conoscitore attento della società brasiliana contemporanea, nel 2016 Moser ha scritto una raccolta di saggi in portoghese, Autoimperialismo, dedicato al movimento Ocupe Estelita, che si batte (citiamo da Wikipedia) «per reclamare gli spazi urbani brasiliani dalle corporazioni che stanno cambiando la storica città di Recife, in quello che viene considerato un tentativo di privatizzare lo spazio pubblico a vantaggio dei ricchi».

Perché dunque questo intellettuale statunitense colto e impegnato, si pronuncia (o pare pronunciarsi) contro la traduzione? Nell’articolo Moser prende le mosse da un’esperienza personale: due anni fa, durante un soggiorno a Londra, ha affittato un alloggio dove un tempo aveva vissuto uno studioso americano, la cui biblioteca era ancora lì, a testimonianza di un’epoca passata – Stephen Crane, Walt Whitman, Stevenson, Joyce, Balzac, Rabelais… «Presi uno per uno, i libri non erano strani; lo era la raccolta, l’idea di una biblioteca condivisa da ogni persona istruita… A collegare le persone della mia generazione (Moser ha 45 anni, ndr), sono state la televisione e la musica pop, e l’enfasi consumistica sulla novità significava che nulla dura a lungo».

È la caducità in cui siamo immersi a rappresentare un primo motivo di riflessione per l’autore, ma insieme a questo ce ne sono altri, ad esso collegati: il lungo percorso che comporta la conoscenza di una lingua (anche la propria), vista come «un’antica città» che si nutre «dell’incontro continuo dei giovani con la tradizione»; il potere dell’inglese, «la lingua imperiale, tanto più insidiosa perché all’apparenza così attraente»; il cambiamento della «retorica che circonda la traduzione».

Scrive Moser: «Non c’è nulla di male nel leggere un libro di una cultura che non si conosce a fondo, ma non capisco l’insistenza che questo sia in sé un bene. Dipende dal libro; dipende dal lettore. E mi colpisce che, dopo aver seguito per anni questi dibattiti, di rado ho sentito una giustificazione al di là della ‘diversità’: un concetto insondabile che prescinde dalle altre giustificazioni – artistiche, scientifiche, scientifiche, spirituali – della traduzione».

E ancora: «La traduzione senza contesto può essere una forma di consumismo, di tokenismo, di – oso dirlo – ‘appropriazione culturale’. Il vero problema della ‘appropriazione culturale’ è che non ci se ne appropria abbastanza.
Clarice Lispector definiva i brasiliani ‘falsi cosmopoliti’, e il termine pare fastidiosamente pertinente: persone che entrano ed escono di continuo da culture che difficilmente comprendono. Espandendoci in troppi altri mondi, abbiamo sacrificato la profondità nel nostro, e ci siamo tagliati fuori da ciò che era particolare e profondo di noi». Sono dubbi espressi da una prospettiva specifica, dal centro dell’impero. E tuttavia aprono interrogativi utili forse anche da questa parte dell’oceano.