L’edizione Einaudi di una nuova traduzione della Bibbia è impresa che merita attenzione per ragioni che notoriamente vanno molto al di là dell’interesse religioso, posto che l’intera civiltà occidentale è debitrice di ciò che questa raccolta di scritti ebraico-cristiani ha significato per la sua storia e la sua cultura, tanto più se a farsene carico è un prestigioso editore laico che ha svolto una funzione di primo piano nella cultura italiana a partire dagli anni quaranta del secolo scorso. Può sorprendere tuttavia che la cura dell’opera, per quanto riguarda concezione, traduzioni e commenti, sia stata integralmente affidata a una équipe di biblisti cattolici; non certo per loro difetto in fatto di competenze, ma per il riproporsi di una consuetudine che lega le operazioni su questi testi all’ufficialità religiosa, cattolica in specie, che solo dopo il Concilio ha reso possibile un accesso alla lettura di essi e comunque pressoché esclusivamente sotto il controllo dell’istituzione che secolarmente ne aveva impedito la traduzione.
La risposta indiretta a questa perplessità la si trova nel risvolto di copertina del secondo dei tre volumi che compongono l’opera (Bibbia, a cura di Enzo Bianchi, Mario Cucca, Federico Giuntoli e Ludwig Monti, Einaudi «I millenni», due cofanetti indivisibili, pp. CXCVIII-3722, € 240,00). Vi si legge che nel lontano 1945, Cesare Pavese auspicò la pubblicazione della Bibbia tra i volumi da inserire nei «Millenni» in corso di progettazione; edizione, si osserva, destinata a «rimanere un tabù einaudiano fino ad oggi». Sul tabù occorrerebbe riflettere, ma chissà poi in che termini il grande scrittore avrà pensato alla Bibbia che avrebbe voluto accostare alle Mille e una notte e al Capitale di Marx, lui che per la problematica religiosa nutriva un interesse tanto ampio quanto laico. Difficilmente, credo, si sarebbe accontentato di attenersi senz’altro al canone cattolico, prescindendo da una vicenda storica che ha fatto di questa raccolta di libri un unicum in termini di unità e pluralità quanto ai testi accolti, alla loro sequenza, alle versioni.
Sta di fatto che, ieri come oggi, superare l’esclusività di quel canone o quanto meno renderlo più prossimo sia alla conoscenza storica sia alla coscienza del tempo presente è impresa ardua, considerato che nel nostro Paese le competenze necessarie sono difficilmente rintracciabili se non in chi è passato attraverso la formazione teologica. E dunque è stato per l’editore pressoché inevitabile affidarsi a chi quelle competenze le ha e ha garantito in questo caso traduzioni non confessionali e commenti storico-critici adeguati all’obiettivo da raggiungere: fare di questa edizione «un punto di riferimento per i lettori di altri fedi o laici». Anche se è poi da verificare quanto abbia seguitato a pesare il condizionamento teologico, anche inconsapevolmente, soprattutto nelle traduzioni.
Detto questo – come avvertenza del protrarsi di un limite culturale –, resta da valutare il contributo che dall’impresa può venire in forza del suo stesso proposito, così come lo si trova succintamente formulato nella Prefazione di Enzo Bianchi: «Certo, la Bibbia è sempre disponibile a una lettura infinita, e non solo per le interpretazioni che sono sempre molte, come testimonia tutta la copiosissima letteratura dei commenti biblici, ma infinita perché diventa diversa a partire da chi la legge», cosicché «c’è un cammino comune del credente e del non credente che deve assolutamente essere messo in rilievo e praticato».
A cominciare, direi, dalla ricca veste editoriale che caratterizza la collana, impreziosita da un apparato iconografico qui particolarmente copioso e chiaramente studiato con l’intento di esemplare l’intera storia della figurazione biblica, dalle immagini paleocristiane a quelle di artisti contemporanei – alcune, inusitate, tutte da scoprire –, e di aiutare altresì il lettore a «ripassare» la storia biblica grazie anche alle accurate schede che le commentano con riferimenti sia ai contenuti storici e artistici sia alla narrazione, quasi una ripresa delle «bibbie» per i fedeli illetterati che per secoli hanno riempito le pareti delle chiese, ma anche oggi utili forse a riaccendere interesse per la «favola» antica che ha nutrito l’immaginario spirituale di tante generazioni.
Un appunto critico merita invece l’aver riproposto l’articolazione della Bibbia cristiana in Antico e Nuovo Testamento, mentre comincia a emergere la consapevolezza che l’acquisizione del patrimonio scritturistico ebraico da parte cristiana non lo rende per questo «antico» o «vecchio» come si diceva fino a qualche tempo fa, e dunque di per sé superato, ma semplicemente letto altrimenti. E così pure, perché seguitare a collocare al seguito del canone ebraico libri sì di origine ebraica ma riconosciuti come ispirati soltanto dalla chiesa cattolica (malgrado la contrarietà di Girolamo), invece di collocarli in appendice come è il caso per le bibbie protestanti? E perché seguitare a posporre il Vangelo di Marco a quello di Matteo, pur riconoscendo che esso è «l’inventore del genere letterario Evangelo» e fonte primaria per Matteo e Luca?
Ma veniamo a ciò che più conta, vale a dire le traduzioni e le note di commento. Nell’improbabilità che ci sia ancora qualcuno competente e disponibile ad assumersi da solo l’onere della traduzione di tutta la Bibbia – come è stato spesso in passato (da ricordare la storica traduzione del protestante Giovanni Diodati all’inizio del Seicento, riproposta alla fine del secolo scorso nei «Meridiani» a cura di Michele Ranchetti) –, è buona cosa che nel nostro caso si sia prestata attenzione a che una stessa mano si applicasse a tradurne intere sezioni, come è il caso per il corpus dei cinque libri della Torah, o per i libri dei Profeti maggiori o ancora, sul versante degli scritti cristiani, per le Lettere di Paolo, i vangeli sinottici, il corpus giovanneo.
In ogni caso, il livello delle versioni appare attenersi stabilmente a un criterio di rigore filologico e insieme di scorrevolezza, con qualche azzardo (perché il grande attacco di Genesi da «In principio Dio creò…» diventa «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra»?), e qualche concessione di troppo a un linguaggio accattivante (l’«Io sono bruna / scura, ma bella / desiderabile, o figlie di Gerusalemme» del Cantico dei cantici mutato in «Io sono abbronzata ma affascinante, ragazze di Gerusalemme»). Complessivamente la tendenza è ad emanciparsi dal conservatorismo teologico e linguistico delle traduzioni sottoposte al vaglio dell’ufficialità. Un’apertura significativa e necessaria per rendere il testo biblico fruibile da tutti, ma a condizione che non ne venga – cosa tutta da verificare – una diminuzione delle tensioni interne a esso, e quindi del potere significante di linguaggi generatisi da esperienze limite, dalla ricerca di dire l’indicibile, e questo in epoche e culture lontanissime dalla nostra (ad esempio la versione del Prologo giovanneo, per quanto suggestiva, non ne migliora, mi sembra, la comprensione).
Un analogo criterio di rigore ed essenzialità ha orientato la stesura delle introduzioni alle diverse sezioni e ai singoli libri, nonché delle note a piè di pagina assai contenute ma in generale sufficienti a sostenere il lettore in un viaggio tutt’altro che agevole. Quanto alle prime, hanno carattere essenzialmente espositivo circa la formazione, i contenuti e le articolazioni di ciascun libro in modo da consentire al lettore di cogliere la specificità della narrazione attraverso la quale l’ebraismo ha definito storicamente la propria identità culturale e religiosa in una singolare fusione di storia e di teologia. Ma lo stesso non si può dire per quanto riguarda il supporto offerto alla lettura degli scritti protocristiani nel loro insieme. Nulla si dice infatti circa la formazione del canone neotestamentario e quindi della letteratura rimasta esclusa; manca un’adeguata esposizione delle ragioni storico teologiche che hanno condotto ad assemblare scritti eterogenei per genere letterario, contenuti, rilevanza; soprattutto si fatica a cogliere la pluralità di posizioni teologiche e le diverse sensibilità religiose nella fase costitutiva della nuova religione. C’è invece a proposito dell’Apocalisse, il libro che conclude la collezione canonica, l’invito a coglierne la corrispondenza con il libro della Genesi che la apre, tendendo così un arco tanto suggestivo quanto evasivo della frattura da cui la religione cristiana si è generata.