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«Traditore della patria» Castillo sotto attacco in Perù

«Traditore della patria» Castillo sotto attacco in PerùLima, manifestazione di oppositori del presidente Castillo – Gian Masko/Ap

America latina La sua colpa stavolta sarebbe stata quella di accennare alla possibilità di concedere uno sbocco al mare per la Bolivia previa convocazione di un referendum

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 aprile 2022

Sembra sempre più una corsa a ostacoli la presidenza di Pedro Castillo. Con ostacoli che diventano ogni volta più alti. Dopo la bocciatura da parte del Congresso, alla fine di marzo, della seconda richiesta di impeachment in soli due mesi, la destra riprova infatti a sbarazzarsi di lui. Stavolta, però, non con la solita mozione di «vacancia» per «incapacità morale permanente» – ambigua figura costituzionale che permette di destituire un presidente senza altra giustificazione che quella di contare sulla maggioranza dei due terzi -, bensì con una denuncia costituzionale per «tradimento della patria»: la colpa di Castillo, in questo caso, sarebbe stata quella di accennare alla possibilità di concedere uno sbocco al mare per la Bolivia previa convocazione di un referendum.

SE IL CONGRESSO approvasse la risibile denuncia – ora all’esame della Sottocommissione delle accuse costituzionali -, incaricando la Procura generale di aprire un’indagine, il presidente verrebbe sospeso dalle sue funzioni per tutta la durata del processo. Ma una sua eventuale destituzione non rimarrebbe senza conseguenze neppure per il Parlamento, il quale è assai probabile che cadrebbe a sua volta, spianando la strada a nuove elezioni generali.
Il braccio di ferro tra i due poteri non potrebbe infatti che concludersi senza vincitori: se l’indice di popolarità del presidente si è ridotto a un misero 19%, quello del Congresso è infatti ancora più basso – appena del 14% -; troppo basso per far fronte al “que se vayan todos” di una popolazione sempre più esasperata. Ed è proprio allo scorso entusiasmo di molti parlamentari rispetto alla prospettiva di dover tornarsene a casa che è legata in buona parte la sopravvivenza di Castillo alla guida del paese.

Di fronte alle crescenti richieste di dimissioni, lui in ogni caso fa sapere che a rinunciare non ci pensa proprio: non lo farebbe «in nessuna circostanza», ha assicurato il ministro della Cultura Alejandro Salas, evidenziando come il presidente sia deciso a «continuare a lavorare duro per il Perù». E ciò malgrado le desolanti cifre dei primi otto mesi del suo mandato: due richieste di impeachment, più di 20 ministri sostituiti e tre governi caduti in appena sei mesi (l’ultimo dei quali durato poco più di 72 ore), mentre sembra avviarsi allo stesso destino anche quello attuale presieduto da Aníbal Torres, destinato a cedere il passo a un governo – il quinto – “di unità nazionale”.

MA PER QUANTO la destra ci abbia messo tutto l’impegno possibile per non lasciarlo governare, Castillo paga carissimo anche i suoi tanti errori (come la decisione di imporre il coprifuoco in risposta alle proteste contro l’aumento dei prezzi), la sua inesperienza, la sua mancanza di visione politica, una certa opacità nel suo stile di governo (che gli ha attirato diverse accuse di corruzione), la scelta di pessimi consiglieri.
Castillo insomma naviga a vista, a capo di un governo che pare abbia i giorni contati, nato da un’evidente spartizione di potere tra le forze politiche ancora disposte a sostenerlo. E, quel che è peggio, il suo livello di approvazione è precipitato anche all’interno di quel poverissimo e calpestato settore rurale che a sorpresa lo aveva condotto alla presidenza. E che ora non gli perdona di essersi “humalizado”, cioè di tradire, proprio come Ollanta Humala, gli impegni di cambiamento assunti con l’elettorato, a cominciare dall’abbandono del suo ambizioso progetto di una «seconda riforma agraria» a favore degli interessi di quelli che il ministro dell’Agricoltura Oscar Zea ha definito i «nostri fratelli agroesportatori».

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