Lo scorso 25 agosto una folla di mezzo milione di persone, secondo le stime fornite dalla stampa locale, si è radunata nella capitale dello stato del Gujarat, Ahmedabad, per protestare contro il sistema delle «reservation»: le quote riservate fissate dal governo in vari ambiti del settore pubblico – dalle assunzioni nella pubblica amministrazione alle ammissioni nelle università – per aiutare le cosiddette «caste svantaggiate» a recuperare il gap socioeconomico che le divide dalle altre caste benestanti.

Questione vecchia e ciclica, considerando che la politica delle quote in India è in vigore, in forme e modalità differenti, fin dalla fine del diciannovesimo secolo, continuamente aggiornata secondo criteri di inclusione: sempre più sottocaste sono state fatte rientrare nell’elenco degli «svantaggiati», nella continua rincorsa a un’eliminazione delle diseguaglianze ereditata dal sistema castale tradizionale hindu, con risultati quantomeno discutibili.

I manifestanti di Ahmedabad, una fiumana ingrossatasi in oltre un mese di proteste in tutto lo stato, sono tutti appartenenti alla casta dei Patel, di estrazione sociale medio bassa, e rappresentano il 12 per cento della popolazione del Gujarat. Nella piramide socioeconomica gujarati, semplificando, i Patel si trovano in bilico sull’ultimo gradino della sussistenza, con mezzo piede verso il benessere della classe media, il grande sogno indiano.

Ma nella piramide delle caste – che non sempre rispecchia il benessere – vantano un orgoglio identitario superiore alla media: devotissimi hindu, senso di appartenenza castale straripante, i Patel sostengono di essere la progenie diretta del mitico dio guerriero Ram, dagli anni ’80 feticcio della destra ultrainduista indiana. La protesta del movimento Patidar Anamat Andolan Samiti (Paas) si appoggia su princìpi apparentemente di immediata comprensione: o il governo inserisce i Patel nella lista delle caste svantaggiate (le «Other Backward Class», Obc), oppure le deve abolire del tutto, poiché impedisce ai giovani Patel di raggiungere le condizioni socioeconomiche che spettano loro di diritto, sorpassati ingiustamente dal resto dei giovani delle Obc.

Ma la rabbia dei Patel ha radici profonde nell’illusione dell’Indian Dream di Narendra Modi, primo ministro indiano originario del Gujarat, chief minister dello stato per due mandati consecutivi e alfiere di un modello capitalista ultraliberista che proprio nel Gujarat avrebbe mostrato, secondo il Modi in versione campagna elettorale, tutte le proprie caratteristiche benefiche e salvifiche, la panacea del capitale per tutti i mali della società indiana.

I Patel in rivolta, guidati dal 22enne Hardik Patel, dimostrano il contrario. Hardik Patel, proveniente da una famiglia interamente occupata nel settore dell’agricoltura, è l’emblema di una generazione di indiani che ha creduto – e votato – al manifesto programmatico di Narendra Modi: apriamoci al mercato, diventiamo la nuova fabbrica del mondo, «torniamo» ad essere grandi attirando investimenti esteri e creando occupazione.

Hardik, laurea breve in economia e commercio presso un istituto di fascia media – e con voti non entusiasmanti – si ritrova bloccato dalla rigidità del mercato del lavoro indiano: non eccelle abbastanza per aspirare a una carriera nel privato, non gode di disponibilità economiche tali da permettersi un master in un’università privata, non può usufruire della quota riservata alle Obc (27 per cento) per l’ammissione nell’università pubblica né nella pubblica amministrazione, non vuole rimanere un contadino come suo padre, rinunciando alle aspirazioni di promozione a uno status sociale più in linea con l’Indian Dream.

Come lui, centinaia di migliaia di giovani Patel vivono in un limbo senza apparente via d’uscita, traditi dal Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito di destra che i Patel hanno contribuito a eleggere sia a livello locale (la chief minister del Guarat è una Patel) sia a livello nazionale. Il patto non scritto – vi eleggiamo e voi andate al potere a fare i nostri interessi – non è stato rispettato, e a oltre un anno dalle ultime elezioni, la rabbia dei Patel è incontenibile.

La manifestazione di Ahmedabad, inizialmente pacifica, prevedeva uno sciopero della fame ad oltranza finché il governo non avesse risposto alle istanze dei Patel. L’esecutivo del Gujarat, in imbarazzo di fronte a una protesta oceanica ordita dalla propria base elettorale, decide di arrestare Hardik, rilasciandolo dopo poche ore, mentre la polizia carica la folla cercando di disperderla. Tra il 26 e il 28 agosto la situazione sfugge di mano: i Patel si sfogano contro tutto ciò che rappresenti il «settore pubblico»: incendiano autobus, assediano le residenze dei deputati «traditori» che loro stessi avevano votato (anch’essi Patel). Hartik, alla stampa, dichiara: «La polizia ci ha caricato senza motivo durante una protesta pacifica: da questo momento non ci riteniamo più responsabili di ciò che può accadere in Gujarat».

Dal governo locale a quello centrale, compreso lo stesso Modi, arrivano moniti ai giovani manifestanti: mantenete la calma e non scadete nella violenza, si sistemerà tutto. Intanto, la polizia – mandata dal governo di Ahmedabad – impone il coprifuoco in alcune zone della capitale e, in modo sistematico, «fa visita» alle residenze di alcuni manifestanti Patel: le telecamere a circuito chiuso della città immortalano scene di violenza gratuita, con agenti in divisa che sfondano vetri d’auto, malmenano intere famiglie, minacciano – racconterà la stampa – di stuprare mogli e sorelle dei manifestanti.

Dal 26 agosto ad oggi gli scontri hanno causato la morte di dieci persone, tra cui almeno due manifestanti «deceduti» mentre presi in custodia dalla polizia. Solo l’intervento dell’esercito, per ordine di New Delhi, pare abbia riportato una calma apparente nello stato, anche se la tensione rimane comunque alta.

Hardik Patel, la cui popolarità a livello nazionale è aumentata a dismisura nell’ultima settimana, ha rilasciato dichiarazioni tutt’altro che accomodanti: «Eravamo in sciopero della fame e la polizia è arrivata e ha iniziato a picchiare tutti, proprio come il generale Dyer a Jallianwala Bagh (riferendosi al Massacro di Amritsar operato dalle truppe inglesi contro i manifestanti non violenti della capitale del Punjab nel 1919, oltre mille morti, nda). Non sappiamo ancora chi sia il generale Dyer questa volta, ma quando lo scopriremo lo uccideremo, proprio come è successo al generale Dyer».

Hardik, secondo i ritratti pubblicati dalla stampa indiana, elenca tra i suoi miti d’infanzia Bal Thackeray, defunto leader della formazione paramilitare ultrainduista Shiv Sena – responsabile dei pogrom antimusulmani del 1993 di Mumbai – e si dice vicino alla Vishwa Hindu Parishad (Vhp), formazione ultrainduista molto attiva in Gujarat, un altro dei grandi sponsor del governo Modi che ora potrebbe avergli voltato le spalle.

La rabbia dei Patel è il sintomo di uno sfilacciamento costante del tessuto elettorale fedele a Modi: elevato a taumaturgo finalmente al potere per curare l’India dai propri mali, in oltre un anno di governo Modi non è ancora riuscito a portare quel benessere promesso e sognato dai propri elettori. E il risveglio, in Gujarat, è stato violento.