Un’imbarcazione arenata su un fianco, attorniata da calcinacci e scarti edilizi, espone ancora con fierezza il suo nome, in lettere bianche capitali su un fondo azzurro seppur scolorito. La Mohamed Hedi è uno dei tanti pescherecci riadattati per una traversata in mare alla volta della tanto agognata Europa – che se non unita, si mostra di certo compatta nel tracciare il confine tra chi sta dentro e chi fuori. Il cosiddetto Cimitero delle Barche sull’Isola di Lampedusa è il luogo che la ospita almeno dal 2011, nel bel mezzo del centro abitato, tra il campetto di calcio e il Molo Favarolo.

Come la Mohamed Hedi, sono tante le navi che da anni si trovano in questo limbo, le cui sembianze sono quelle di una discarica. Posti sotto sequestro, numerati e destinati alla demolizione con tutto ciò che essi contenevano, gli scheletri di queste imbarcazioni rappresentano il tentativo, portato avanti per almeno 10 anni, di cancellare le testimonianze delle migrazioni a partire dalle loro tracce materiali. Ma questa discarica racchiude anche un’altra storia, di segno opposto: quella di una lotta sviluppata con perseveranza per strappare a forza dal fondo del decorso storico tali tracce destinate all’oblio. Il Collettivo Askavusa è una delle anime promotrici di questo processo. Porto M (M come Memoria, Migrazioni, Mediterraneo, Militarizzazione) ne è sia la sede, sia lo spazio in cui sono conservati tutti gli oggetti che, rinvenuti all’interno dei barconi e salvati dalla discarica, raccontano storie di migrazioni attraverso il Mediterraneo. È un luogo, non un museo, che sviluppa un progetto di conservazione della memoria e di sviluppo di una coscienza critica relativa alle politiche migratorie europee e alle sue rappresentazioni mediatiche.

Porto M è a Lampedusa e non poteva essere altrove, in un’isola la cui posizione geografica ne ha plasmato la storia passata e presente, legandola agli occhi dell’opinione pubblica ai fenomeni migratori. Nel bel mezzo del Mar Mediterraneo, a metà strada tra il continente europeo e quello africano, essa è stata utilizzata nel corso dei secoli sia come porto franco che come avamposto militare. Negli ultimi anni, con Lampedusa spesso in prima pagina, i media ne hanno dato rappresentazioni diverse, ma tutto sommato complementari. Come raccontano le persone del posto, si va dall’ ‘isola dei clandestini’, un possibile carcere a cielo aperto, all’ ‘isola dell’accoglienza’, candidata al premio Nobel per la pace. Rappresentazioni perfettamente compatibili con la diade ‘clandestini/migranti’: i primi da temere e respingere, i secondi da accogliere e commiserare.

Proprio all’interno di uno dei natanti abbandonati nel ‘Cimitero delle Barche’, nel 2009, Giacomo, membro del collettivo, trova una scatola contenente lettere, preghiere e fotografie provenienti dall’Etiopia. Oggetti che qualcuno aveva ritenuto indispensabili da portare con sé in un viaggio dall’incerta destinazione. Il contenuto della scatola, insieme a utensili da cucina, bottiglie e giubbotti da salvataggio, sono i tasselli che, accumulatisi nel corso del tempo, dopo giornate passate in discarica, andranno a comporre il mosaico di Porto M. “Capimmo immediatamente l’importanza di ciò che avevamo trovato”, racconta Giacomo. Si trattava di “tracce di storia” – aggiunge Annalisa di Askavusa – “che era necessario conservare e che, dopo lunghi dibattiti, abbiamo pensato fosse significativo esporre”. Le modalità erano tutte da discutere, ma una cosa era chiara fin dall’inizio, ovvero che la tradizionale forma museale non avrebbe potuto rendere giustizia alle storie e alle persone legate a quegli oggetti. L’allestimento di Porto M (se di allestimento si può parlare) infatti rifugge dalla tradizione museologica europea, secondo la quale a ogni oggetto corrisponde una didascalia che lo descrive, un piedistallo che lo eleva dalla banalità del quotidiano e una teca che, inquadrandolo e proteggendolo, lo separa dal fluire della vita. Ogni tassello di questo mosaico caotico è invece libero di comunicare con gli altri e con lo spazio, di parlare per sé, senza letture imposte e allestimenti curatoriali. “Porto M non è statico, è un magma che ribolle sempre, è un processo, è un rapporto, non è un museo”, dice ancora Giacomo. Non c’è quindi forma definitiva, che immobilizzerebbe gli oggetti in un ordine imposto, privandoli della loro energia. Ogni elemento è suscettibile di essere spostato, trasformato da chi quello spazio lo attraversa e lo vive. Alcuni, passando per Porto M, hanno riconosciuto gli oggetti appartenenti alla propria cultura, come la marca di un cibo in scatola, una vecchia audiocassetta o un giocattolo. C’è chi ha cambiato la posizione di un telo isotermico, “chi invece ha lasciato un accendino che con lui aveva fatto il viaggio”, spiega Francesca di Askavusa. Diverse sedi si sono succedute nel corso del tempo: da case prese in affitto, fino all’ultima grotta, originariamente un deposito di barche, affacciata sul mare, a metà tra il porto vecchio e il porto nuovo. Legni di barche di recupero ne rivestono la facciata esterna, accogliendoci alla soglia di in un’architettura che non si impone sul territorio. Essa non pretende di elevarsi a tempio della cultura e a scrigno di ciò che vale la pena conservare. Non è altro che un luogo, come tanti sull’isola, in continuità con essa e con quanti la attraversano per motivi differenti.

Ma Porto M non è solo gli oggetti che espone, né la sua configurazione post-museale. La conservazione delle tracce materiali delle migrazioni è solo una parte di un’attività politica quotidiana. Annalisa ricorda la giornata del 24 gennaio 2009, anno in cui Maroni aveva lanciato la proposta di costruire un CIE sull’isola. Dal suo punto di vista, quella giornata fu cruciale per la nascita di Porto M: lampedusani e migranti si ritrovarono insieme a protestare in Piazza della Libertà contro le stesse politiche. Quelle politiche che negano il diritto di movimento a donne e uomini in fuga dal loro paese, ma che privano anche i cittadini di Lampedusa della possibilità di vivere un’isola non militarizzata e libera da radar. Inevitabilmente lo spazio di Porto M è lontano dalla bianchezza e dall’asetticità del museo. Al contrario, è un luogo simbolo di lotte originatesi dal basso, nel territorio e con le persone che lo abitano. Molti si sono trovati lì a “discutere dell’organizzazione delle proteste o a raccontare le condizioni all’interno dell’hotspot”. Ma Porto M è anche il luogo in cui “abbiamo cucinato un piatto di pasta o suonato dentro la grotta fino a tarda notte”, dice Giacomo.

Sviluppatosi dal territorio, sul territorio Porto M vuole ritornare, disperdendosi su di esso. A partire da Settembre 2018 saranno visibili le prime tracce di un progetto che i componenti di Askavusa chiamano il Museo Diffuso. Già da qualche mese alcuni oggetti sono stati distribuiti nei luoghi nevralgici di aggregazione della comunità. Il primo a esserne interessato è stato la parrocchia locale a cui sono stati ceduti gli oggetti sacri (come corani, bibbie e preghiere) che verranno esposti nel Santuario della Madonna di Porto Salvo: un luogo da secoli simbolo della convivenza di persone appartenenti a culture e a religioni diverse che trovavano in Lampedusa un porto salvo durante una tempesta in mare. A seguire la scuola, l’archivio storico, la biblioteca per ragazzi e il comune accoglieranno in maniera permanente diversi oggetti appartenuti alle persone migranti. L’idea alla base di questo progetto è rendere la comunità di Lampedusa partecipe e custode di questa collezione atipica. L’obiettivo è quello di aprire opportunità di riflessione e di dibattito, che avranno per tematiche la storia di Lampedusa, le politiche migratorie di cui è stata bersaglio e arciere, le vecchie e le nuove strategie coloniali. Attraverso la diffusione del Museo, gli oggetti in esso contenuti si disperderanno sul territorio, negando l’unicità della sede e rendendosi significativi per la comunità locale.