Sappiamo che il processo di neoliberalizzazione è penetrato con forza nell’accademia. Allo stesso modo anche in Italia, dove la logica neoliberale è stata piegata al secolare sistema di controllo baronale. In spazi sempre più asserviti alle logiche mercantili ed estrattive della razionalità neoliberale, i margini per la produzione di saperi critici si sono ristretti sempre di più. Mercato, produttività, positivismo scientifico appaiono come gli unici criteri di verità dell’attuale economia politica e morale della conoscenza. L’università, dunque, appare come uno degli «specchi» più fedeli di ciò che di recente Etienne Balibar ha suggerito di chiamare l’epoca del «capitalismo puro»: un momento storico in cui la logica di accumulazione capitalistica riesce non solo a governare in modo univoco il politico, piegandolo alla propria logica utilitaristica, ma anche a procedere in modo autonomo da ogni forma di conflitto. L’epoca della post-democrazia è anche l’epoca della post-università.

IN QUESTO CONTESTO di neoliberalismo egemonico, i modelli di conoscenza promossi dall’accademia non possono più essere considerati come l’unico modo legittimo di comprendere il mondo. È questo il punto di partenza dell’ultimo lavoro di Iain Chambers: Postcolonial Interruptions, Unauthorized Modernities (Rowman & Littlefield).
Dobbiamo dunque rivolgere l’attenzione altrove: alle forme di vita e di resistenza messe oggi in atto nel cuore stesso dell’Europa dalle soggettività storicamente escluse dalla colonialità dello sviluppo della modernità capitalistica occidentale, ma soprattutto a quelle pratiche artistiche, musicali, letterarie e visuali che negli ultimi anni hanno cercato di codificare entro nuovi e sempre più complessi codici estetici queste esperienze postcoloniali dissonanti; sono queste voci e narrazioni a promuovere oggi una delle sfide epistemologiche più radicali.
Secondo Chambers, queste esperienze di vita e pratiche estetiche diverse irrompono nell’attuale spazio discorsivo come frammenti «incurabili», come veicoli di una memoria alternativa capace di «perturbare» e di «interrompere» non solo l’attuale «Algebra del potere», ma soprattutto la prevedibilità degli archivi tradizionali del sapere e della cultura moderna occidentale.

QUESTE ESPERIENZE e narrazioni diverse non fanno che spezzare l’archivio del sapere e della cultura moderna occidentale. Ed è proprio a partire da questa premessa che viene a interpellarci la valenza assegnata da Chambers alle «interruzioni postcolonali» (politiche, culturali, artistiche) in quanto momenti e pratiche di rottura, tanto epistemologica quanto ontologica: l’effetto dell’interruzione è quello di minare alla base (si potrebbe dire di «declodere», per sfruttare il noto termine di Nancy) qualsiasi pulsione o desiderio tendente a chiudere il Reale (si potrebbe intendere benissimo in senso lacaniano, anche se l’autore non lo fa) in un’unica narrazione del mondo.
Per andare oltre la cosificazione del presente prodotta dalle grammatiche epistemologiche istituzionali dobbiamo dunque lasciarci attraversare da queste «interruzioni postcoloniali»: poiché esse ci portano il dono (nel senso derridiano del termine) della memoria contro la storia istituzionalizzata. Queste memorie subalterne custodiscono tracce e mondi resistenti, ma rimasti impliciti e silenti; contengono in sé quei resti di «modernità non-autorizzate» che per Chambers sono la garanzia di un futuro «senza garanzie», per dirla con Stuart Hall, ovvero di un futuro reticente ad ogni forma di chiusura o di certezza.

IN SINTESI, queste memorie hanno per Chambers il merito di rendere perennemente «opaco» il nostro mondo, ci sollecitano a liberare i confini della nostra conoscenza dagli imperativi neoliberali della misura e della trasparenza.
Ma il testo di Chambers non si ferma all’enunciazione dell’interruzione come metodo. Nella prima parte, Chambers cerca di de-europeizzare, per così dire, la modernità. Chambers ricorda innanzitutto che la modernità ha un’origine globale, nel senso che è stata il prodotto di un’interconnessione secolare tra i diversi continenti.
Un fenomeno sorto non solo dalla conquista dell’America, così come dallo sterminio e dal saccheggio materiale progressivo di diverse zone del mondo non-europeo, ma anche dagli apporti dalla cultura medievale, della scienza e della filosofia arabo-mediterranea. Per questo, la modernità europea – così come la sua auto-narrazione «umanistica» della storia – è solo una tra quelle in circolazione.

SI TRATTA di una forma di modernità inseparabile dall’appropriazione coloniale e dalla distruzione capitalistica del mondo. E questa colonialità della condizione storico-materiale di sviluppo dell’Europa moderna, precisa Chambers, non solo è alla base del carattere estrattivo e predatorio del capitalismo attuale, ma non poteva non surdeterminare la stessa produttività culturale, politica ed epistemica delle discipline moderne occidentali.
In modo del tutto opportuno, visto quanto sta accadendo oggi nell’Europa della Brexit e negli Stati Uniti di Trump, Iain Chambers ripropone qui una genealogia postcoloniale piuttosto suggestiva del liberalismo europeo, sottolineando in che modo esso abbia storicamente concettualizzato lo sviluppo della modernità in stretto rapporto ai diritti di proprietà, compresi quelli su altri esseri umani, e quindi attraverso la legalizzazione di un certo tipo di violenza: nell’Europa capitalistica moderna l’emancipazione di una parte della popolazione è sempre dipesa dallo spossessamento di un’altra. Nel governo occidentale del mondo, segnato da una divisione coloniale dell’umanità, la necropolitica (politica della morte) ha da sempre costituito il rovescio costitutivo della biopolitica (politica della vita). Chambers ci chiede di pensare la modernità occidentale come un assemblaggio costitutivamente eterogeneo, caratterizzato da sempre dalla coesistenza gerarchica (e non teleologica) di diversi regimi di lavori, di diversi status di cittadinanza, di temporalità culturali differenti. È proprio a partire da questo presupposto che l’idea di restringere il senso della modernità entro la singolarità della narrazione umanistico-occidentale non può che apparire come un ulteriore effetto della colonialità del potere capitalistico globale.

La narrazione bianca e occidentale della storia deve ora confrontarsi con altre narrazioni: e «la fine dell’innocenza del soggetto bianco» sta qui a significare anche la fine dell’innocenza delle scienze sociali e umane emerse nella modernità. In sintesi, queste prese di parola «altre» hanno provocato il naufragio definitivo dell’archivio occidentale moderno, poiché questa molteplicità di voci non può più essere ricomposta entro un’unica visione oggettiva e totalizzante del mondo, del passato, della storia.

Nella seconda parte, l’attenzione è rivolta ad alcune delle produzioni estetiche contemporanee, visuali e musicali, che dal suo punto di vista enunciano in modo più efficace la possibilità di queste «modernità non-autorizzate». Le opere di artisti come Isaac Julien, Mike Cooper, Jimmie Durham, Akram Zaatari, Yinka Shonibare, Dagmawi Yimer e John Akomfrah, ma anche esibizioni come «il museo delle migrazioni» di Lampedusa, o lo stesso paesaggio dell’isola, abitato da imbarcazioni abbandonate, resti ed oggetti quotidiani appartenuti ai migranti non fanno che evocare nel presente, attraverso suoni e immagini, la possibilità di «incontri inattesi» con il passato, ovvero la potenzialità di una diversa «ecologia della cittadinanza» per il futuro fondata su frammenti di memorie escluse e rimosse dagli archivi istituzionali.

LE PRODUZIONI ESTETICHE di artisti come questi, afferma Chambers, evocando la presenza di un altro (coloniale) represso e negato, di una ferita impossibile di curare, «disseminano buchi nel tempo», ovvero «aprono alla differenza e alla molteplicità l’astratta e lineare cronologia dello storicismo occidentale»; si propongono quindi come le immagini di una benjaminiana «lacerazione nella temporalità del presente». Chambers sembra suggerirci dunque l’esistenza di due diversi tipi di «interruzioni postcoloniali». La prima di tipo di «teorica», utile più alla critica della grande narrazione moderna occidentale e alla sua filosofia coloniale della storia che non alla costruzione di identità politico-culturali alternative; una seconda di tipo estetico-artistica, sicuramente più capace di evocare, rispetto a quella meramente teorica, nuove soggettività post-coloniali emergenti.

Nello schema che ci propone Postcolonial Interruptions le pratiche politiche (postcoloniali) devono necessariamente apparire come la continuazione dell’estetica con altri mezzi. E sta qui forse dal suo punto di vista, nella messa a frutto di un immaginario punto di incontro tra memorie subalterne represse, culture migranti e popolari e un certo tipo di pratiche estetiche, la migliore espressione del postcoloniale come (in)autentica interruzione.