Un inedito lato oscuro presente nella penisola salentina viene messo in evidenza dal film Tracce di Bene di Giuseppe Sansonna in aggiunta a un altro prezioso materiale, la conversazione tra Carmelo Bene e l’amico scrittore Giancarlo Dotto che per anni è stato suo assistente alla regia. Dall’unione di questi due elementi si sviluppa una biografia che trova le sue note inedite nel tono della voce di Carmelo Bene, inusualmente colloquiali e amichevoli e nel girato ideato non solo come viatico alle parole catturate un giorno prezioso, ma anche come messa in scena evocativa inaudita. Gli stessi episodi letti nelle pagine di Carmelo Bene o traferiti nelle opere teatrali o materia dei film, qui sono come distillato evocativo, gioiosa la voce, oscuro (in senso misterioso) il girato con momenti di divertimento assoluto, così come non manca mai in un salentino il gusto per i fatti curiosi: una magnifica frazione di immagine parola che accorcia la distanza dei quindici anni dalla morte dell’artista. Un antro della Sibilla dove Luigi Mezzanotte evoca misteri, interni casalinghi dove Flavio Bucci incarna lo zio in carrozzella, saloni dove un piano a coda fa risuonare le arie d’opera, affreschi evanescenti, il santo che prende il volo, Franco Citti estatico, al confine. E dopo essere stato presentato alla Festa di Roma sarà presentato il 17 novembre al Teatro Massimo di Cagliari nel corso delle Giornate del cinema Mediterraneo (18 novembre – 2 dicembre). A Giuseppe Sansonna chiediamo qualche approfondimento.
Mi parli della scelta degli attori?
Franco Citti è stato scelto perché ha lavorato con Carmelo Bene. Lo adorava, lo scelse per la Salomé. Era una figura prettamente pasoliniana, l’Accattone che veniva deriso sulle pagine del Borghese. Citti sono andato a trovarlo, ho visto che era pressocché ammutolito. Mi è sembrato un gesto d’amore inquadrare il suo primo piano, non fargli fare sforzi, era diventato quasi un Edipo re.
In che senso dici che era diventato un Edipo re?
Si era riconnesso con quel mondo arcaico, lo era diventato senza mediazioni culturali, era sprofondato in quello che Pasolini aveva intravisto in lui. Aveva un corpo sacro, questo viso magnifico, credo si veda in questo primo piano.
E che dire della la zia Raffaella di Luigi Mezzanotte (che è impressionante in tutto il film)?
Mezzanotte, quando la madre di Carmelo bene l’ha visto in Ubu Roi dove faceva la donna, ha detto «Questa è la migliore delle tue mogli, delle tue donne, Carmelo». Mezzanotte era pienamente partecipe del mondo di Carmelo Bene, era la mascotte della Doriglia-Palmi. Lui lo scopre lì. All’opposto Flavio Bucci non aveva niente a che fare con Carmelo (gli ho dedicato un capitolo sul mio libro Hollywood sul Tevere). È una specie di esule, ha veramente esagerato con le sostanze forti, purtroppo la sua grandezza è molto macerata, la memoria gli manca. Però ricorda dei frammenti. Quando era in sé era un attore del tutto tradizionale, una sorta di riedizione del mattatore ottocentesco che faceva il Riccardo III a suo modo, Il diario di un pazzo immedesimandosi forse troppo, la corda pazza pirandelliana che lui ha frequentato per troppi anni e gli è rimasta addosso con venature gogoliane. Adesso è diventato veramente Riccardo III, una figura che va oltre il teatro. In questo si ricongiunge al mondo di Carmelo bene e al mondo di Doriglia-Palmi.
Un mondo che tu sicuramente non hai potuto vedere
Ricordi che non ho vissuto direttamente, però me li sono immaginati. Ho voluto raccontare con quello che rimaneva, con queste macerie di memoria, questo audio rovinato, questi due attori, il gatto e la volpe rimasti senza Pinocchio, con l’idea di andare a cogliere piano piano la memoria senza l’idea di definirla, di renderla un sussidiario, una didascalia, ma evocarla, lambirla con delicatezza. Questo era l’obiettivo di tutto il lavoro. Volevo cogliere cosa trovasse in questi vecchi attori lui ragazzino ventenne a Roma, un frammento di un passato lontanissimo, un Cristo in croce ottantenne, tra amnesie e assurdità varie, però commoventi. Diventa commovente anche l’errore, anche non ricordarsi più nulla però restare lì in scena. Qualcosa di profondamente umano: questo mi piaceva. Luigi Mezzanotte poi ha una presenza gotica. Mi ha colpito nel tuo film la visione oscura del Salento, tutto un inedito lato non solare
Io non amo l’oleografia. Senza nessun tentativo di imitare Carmelo Bene che sarebbe stato ridicolo, l’idea era quella di andare in un Salento come lo descriveva lui buñueliano, dove ci sono lati grotteschi ma mai ridanciani o eccessivamente solarizzati. C’è qualcosa di medievale. Siamo stati favoriti dal fatto di girare a gennaio. Senza voler essere per forza cupi, perché il tono è ironico e dolente ma allo stesso tempo con molte aperture come quando lui ripercorre le «mignotterie» della sua vita e ride del manicomio, ride del primario, imita le voci, oppure quando parla di San Giuseppe da Copertino…
Nei nastri ha un tono di voce completamente diverso da quello scenico, è colloquiale, familiare
Questa è la chiave profonda da cui è nato tutto. A me interessava il tono, non tanto i contenuti. Lo trovo commovente nonostante il nastro rovinato. È lì che trovo la necessità di fare questa operazione. Se avessi avuto una registrazione molto più pulita con il suo tono stentoreo, l’avrei trovata un’operazione superflua. Così invece mi sembra vada a coprire qualcosa che non c’era. Ho messo insieme elementi che servivano a costruire macerie di memoria, fantasmi che scorrono.
Con Giancarlo Dotto come avete lavorato?
Ci conoscevamo da tempo, lui aveva il nastro con questa voce, se ne parlava, si parlava di darle vita. Dal punto di vista della scrittura e della regia mi ha lasciato totale autonomia, sui personaggi, sulla messa in scena. Ha voluto dare il suo contributo con il brano dal suo testo pubblicato da Pironti. C’era una sintonia bambina tra i due, una totale complicità, una sintonia non paludata che permette questo tono anche scanzonato verso se stesso. Le stesse parole scritte hanno un tono un po’ marmoreo.
In che anni è stata registrata la voce?
È una registrazione della fine degli anni Novanta, questo è anche un aspetto molto bello perché ci sono dei punti in cui la voce gli ritorna giocosa. È come L’ultimo nastro di Krapp di Beckett, quando il personaggio di Beckett torna sempre su certi luoghi della memoria e più tornano questi ricordi e più si distanziano, diventano romanzeschi, si impastano di immaginario, come quando parla della zia Raffaella e dei parenti che non mangiavano perché loro due suonavano e cantavano fino al tramonto e nessuno cucinava, l’immagine di questo Amarcord degenerato in salsa salentina, iperbolico con quel pianoforte gigantesco che i ricordi ingigantiscono ancora di più, il latino oltraggiato delle beghine. Lì ci sono tutti germi del suo teatro, la musicalità, l’andare al di là del testo, lo scardinare la rappresentazione però mantenendo questo aspetto fortemente emotivo che ho messo nell’ultimo tratto quando arriva Mezzanotte con la torcia: «Rivendico l’emozione» che è una delle ultime cose che ha detto nella vita. Negli ultimi tempi faceva dei discorsi un po’ cervellotici, l’aspetto della foné (non voglio ledere la maestà). Ma quando dice «rivendico l’emozione» sento che è autentico.
Quello che distingue il teatro della rappresentazione da quello che ho praticato io, dice, è la ricerca di una reale emozione che va al di là del personaggio che si immedesima. Lui cercava molto la vita. Quando si sente quel pezzo sussurrato quando parla di Pasolini, quell’incontro bellissimo che descrive bene il rapporto tra i due e poi infine sussurra: «dove trovasse il tempo, faceva il pamphlettista, si scazzottava nelle borgate, girava con le moto…dove trovasse il tempo, ma il tempo non c’era né per lui né per me» questa ricerca della vita attraverso le forme d’arte e quindi una smania di vivere disperata, folle. Per quanto sia stato gotico nei suoi spettacoli, il paradosso era continuo.