Quando nel 1566 Giorgio Vasari, a Venezia per aggiornare l’edizione delle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, visita la casa di Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore 1480/85 – Venezia 1576) a Biri Grande lo trova, «ancor che vecchissimo fusse, con i pennelli in mano a dipignere». Vasari prende nota delle tele presenti nello studio del pittore e in corso di esecuzione, ma quanti dei suoi collaboratori conobbe non sappiamo, né quanto indaghi circa i metodi di lavoro del famoso collega che «fa opere degne d’infinita lode». Il collega toscano vede all’opera il Tiziano tardo, quello della pennellata disfatta, rapida, gestita talvolta con gli «sfregazzi» delle dita – come narrano altre fonti – in un fare del tutto eterodosso che a noi sembra antesignano di certi esiti impressionisti e informali. Vede insomma un sommo artista che in quegli anni di estrema maturità tende, secondo lui, «all’imperfetto».

È un dato di fatto che Vasari abbia tenuto ferma l’idea, come già per Giorgione prima, che Tiziano lavorasse senza disegno, ossia senza la serie d’accurate elaborazioni del tema su carta che precedono l’esecuzione del dipinto, che sarebbe fatto quindi direttamente o quasi con il colore, senza troppo studio. Sarà il tema del disegno un punto di vista che sancirà per lo storico e pittore aretino la netta differenza tra la scuola fiorentina, cui egli stesso appartiene, e quella veneta, la prima in possesso appunto del «primato del disegno».

Non solo ombre e luci
Naturalmente la questione è meno netta: da un lato dei pittori veneti si conserva una messe di disegni inferiore rispetto ai fiorentini (e ciò può esser frutto di vari accadimenti), dall’altro le immagini riprese ai raggi infrarossi negli ultimi due-tre decenni hanno ampiamente mostrato che anche a Venezia e in terraferma si disegnava sulle tele e sulle tavole prima di apporre il colore. E si disegnava a volte con alti gradi di elaborazione formale, come – primo su tutti – faceva il grande maestro del rinnovamento della pittura lagunare Giovanni Bellini, che fino agli anni ottanta del XV secolo studiava in tavola i volumi dove apporre le ombre, tratteggiandole con somma perizia. La metodologia diagnostica che va sotto il nome di riflettografia infrarossa permette infatti di leggere sotto la pittura il disegno, quando questo è fatto con inchiostri a base di carbonio, neri. Non solo: Vasari avrà visto di Tiziano quella fase ultima, segnata dalla riduzione del tracciato grafico sulla tela a poche linee essenziali, i contorni maggiori, qualche piega, le posizioni degli occhi e del naso, dove il disegno era davvero ridotto al minimo, e la pittura era solo fatta di colore, colore come memoria della forma. Teniamo anche conto che forse gelosamente il maestro custodì i segreti del suo atelier di fronte al collega, preferendo allontanare i molti collaboratori per esser presente lui solo al cavalletto.

Quanto Dino Formaggio scriveva nel 1950 su Tintoretto resta valido, e in primis, anche per Tiziano: «la tecnica artistica aveva allora qualcosa di compiutamente sociale e corale. L’artista teneva bottega, lavorava insieme ad aiuti e discepoli. La bottega era anche scuola. La tradizione veneta vi aveva posto come base la famiglia stessa, in una specie di ditta comune sotto la direzione del maestro. Bisogna quindi immaginare un continuo traffico di modelli, di vestimenti, di bozzetti, di disegni, di casse, di colori e dei mille accessori dell’arte».

Lo storico veneziano del Seicento Carlo Ridolfi scrive che durante l’assenza di Tiziano «i discepoli si davano a far copie delle opere più belle, stando uno di loro di scorta». Opere che poi il maestro, tornato in studio, finiva di «sua mano».

Immaginiamo collaboratori diversi per provenienza, qualità, formazione. Pressoché nessuno però in grado di raggiungere tecnicamente, pur al suo meglio, il maestro. Come è intuibile, questa vera e propria industrializzazione del lavoro con divisione dei compiti, in questa e altre botteghe non rende sempre facile distinguere quanto è interamente autografo di Tiziano e quanto è di altra mano. o di collaborazione. Ed è la qualità stilistica complessiva a fare la differenza, come pure quella della pennellata e in altra misura la tipologia di disegno sottostante.

D’altro canto solo una bottega molto ben organizzata poteva far fronte alle commissioni che piovevano dalle aristocrazie di ogni parte d’Europa. Tale è il prestigio di Tiziano e tanto brillanti i suoi colori che la corte di Filippo II di Spagna gli chiederà di procurare pigmenti di prima qualità per i pittori della sua corte: era Venezia all’epoca il più importante mercato europeo dei colori.

Nato nelle montagne del Cadore, cresciuto artisticamente nella Venezia del vecchio Bellini e del giovane Giorgione, nella sua lunga, splendida e gloriosa carriera viene nominato cavaliere imperiale e conte palatino.
Dal Biri Grande, che è insieme casa, laboratorio, spazio espositivo e ufficio, il pittore tiene il bandolo di una fitta rete di corrispondenze e relazioni internazionali che qualcuno ha definito «sistema Tiziano». Eppure tiene sempre alla sua autonomia, che nella Repubblica di Venezia, nonostante tutto, può garantirsi, pur dando forma alle aspirazioni dei suoi committenti, sia con soggetti sacri sia profani e sensuali.

Non era forse l’immagine allegorica da lui scelta, la sua «impresa», un’orsa che lecca i suoi piccoli, le sue opere, dando loro forma secondo quanto si credeva in antico? Supremo formatore d’immagini, Tiziano si distingue fin da giovane per la prensilità del suo sguardo, in grado di assorbire e rimodellare soggetti e temi di Giorgione, Sebastiano del Piombo e Lorenzo Lotto, facendoli propri e quasi suoi marchi di fabbrica. In un insieme di abilità tecnica e di talento nel riformulare soluzioni iconografiche che restano vivi fino agli anni estremi, quando nella Santa Margherita e il drago del Prado si basa ad esempio su un modello raffaellesco, ora a Vienna ma all’inizio del Cinquecento in una collezione di veneziana.

Da fisico dedito all’applicazione di analisi di tipo non invasivo, svolte in diverse lunghezze d’onda, per studiare la materia e la genesi delle opere d’arte, ho avuto la ventura di studiare nell’ultimo decennio con tecnologie innovative e portatili dozzine di dipinti di Tiziano e del suo entourage. Da ultimo, insieme al curatore della mostra dedicata a Tiziano apertasi a Roma (Tiziano, Scuderie del Quirinale, fino al 16 giugno, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa), ho passato al vaglio delle moderne tecniche diagnostiche numerosi dipinti delle importanti collezioni pubbliche veneziane e fiorentine, alcuni poi confluiti in mostra. Qui, per scelta del curatore, si espongono solo opere – una quarantina, a rappresentare per exempla l’evoluzione del maestro – che gli esperti riconoscono di completa autografia tizianesca.

Lo studio, non ancora ultimato, promosso dal Centro d’Arti Visive dell’Università di Bergamo (http://cav.unibg.it/diagnostica/web/) insieme alle Scuderie del Quirinale, permette di osservare, dalla porta della scienza, dopo quasi cinque secoli dentro l’atelier Tiziano. Solo un esame sistematico – ed è questa una parola chiave – di decine di pezzi di mano e cronologia nota consente di formarsi idee piuttosto precise circa l’evoluzione della tecnica di un artista, e di confrontarne gli esiti con quelli emersi dalle opere di incerta attribuzione, o sicuramente di bottega, o con copie di incerta collocazione temporale.

Tiziano, del quale purtroppo restano pochi disegni superstiti, disegnava su carta, spesso a gessetto nero, e ingrandiva le figure o usando griglie quadrettate o a mano libera, direttamente su tela oppure su grandi fogli detti cartoni, della dimensione del soggetto finale, repertori di modelli utili ad essere archiviati e riutilizzati copiandoli a mo’ di carta carbone, come avveniva anche nel secolo precedente, o abilmente ridimensionati. Nonostante i cartoni non siano sopravvissuti, se ne deduce l’esistenza grazie all’esame in infrarosso del disegno sottostante e dei ripensamenti in corso d’opera, non di rado numerosi in Tiziano, sempre alle prese con la riformulazione di soggetti di successo con lievi o cospicui cambiamenti. Modifiche presenti anche nei dipinti di alcuni collaboratori più stretti.

A titolo di emblematico esempio, nella tela con la Madonna con il Bambino con santa Caterina e san Giovannino conservata a Palazzo Pitti, la riflettografia mostra, oltre a un disegno sottostante di contorno per figure e paesaggio, la cui meccanicità rimanda al ricalco da cartone, la presenza a sinistra di un bambino (san Giovannino?) in atto di ricevere dalla Vergine dei fiori, poi eliminato, a destra invece il Giovannino attuale e il suo agnello sono dipinti in ultimo, non previsti, infatti giacciono sopra un paesaggio già ultimato con due conigli che si accostano muso a muso.

Fluidi segni neri a pennello
Il dipinto, ascritto alla bottega ma comunque di alta qualità, rappresenta una variante di un tema proposto negli anni Trenta da Tiziano, noto in altre versioni, una delle quali, alla National Gallery di Londra, ha il san Giovannino a sinistra ed è priva della ruota del martirio di Caterina. Un’altra versione, su tavola, al Kimbell Art Museum di Fort Worth, è simile alla nostra nella parte sinistra, dove tuttavia le radiografie mostrano che vi era dipinto in vece del Giovannino un angelo, mai completato e quindi coperto con la vegetazione. Il san Giovanni, qui sulla destra, vi compare in veste di pastorello con a fianco l’agnello ed è aggiunto, similmente al nostro caso, in ultimo.
È insomma sovente una sorta di processo di taglia-e-incolla volta per volta da interpretare quello con cui lavorano Tiziano e i suoi, dentro la straordinaria officina di immagini. Così accade per le molteplici versioni dei soggetti più richiesti, dalla Danae all’Adorazione dei Magi, alle Maddalene penitenti, ad alcune Madonne con il Bambino, alle varianti della Bella, svolte sulla base di modelli utili a replicare i soggetti, recanti una o più figure della composizione che vengono riportate sulla preparazione del dipinto con essenziali segni, per essere poi modificate.

Più facile in generale è riconoscere la mano di Tiziano, almeno in fase d’impostazione, quando il disegno sottostante la pittura è fatto, anche parzialmente, di fluidi segni a pennello neri, come in età giovanile, o di sottili e tremuli tratti a pennello o carboncino, come avviene in alcune opere della maturità. Tra questi estremi numerosi esempi, anche nei ritratti, di semplicissimi segni di solo inquadramento della figura, con pennellate talvolta grosse.
Mutevole la tecnica di Tiziano, talora sperimentale, non semplice da interpretare. Su ogni analisi, come scriveva profeticamente Roberto Longhi. «Sempre al nostro occhio spetterà il controllo accurato del lavoro eseguito dagli apparecchi e di valutarlo in rapporto all’opera, (…) perché l’occhio soltanto è fornito di coscienza critica». In questo senso solo l’occhio colto e allenato trae dai dati il maggiore e migliore numero di informazioni, per sottoporle al vaglio del dialogo con gli storici dell’arte, in una prassi interdisciplinare.

Ancora una volta: una questione di metodo.