È la prima telefonata fra Zingaretti e Conte, a metà mattinata, a sbloccare una trattativa che si era interrotta dopo l’una e mezza di notte in maniera ancora «interlocutoria», parola accorta che significa quasi stallo. Dopo poche ore, al sorgere del sole, improvvisamente tutto di nuovo sta per saltare per aria. Filtra una sparata a freddo di Luigi Di Maio: «Se non dicono sì a Conte è inutile vedersi, sono stanco dei giochini». L’incontro delle 11 fra le delegazioni Pd-5stelle viene sconvocato.

Di Maio vuole rompere, forte delle proposte di premiership che gli arrivano da Salvini, in caso di ritorno fra le braccia leghiste. Dal Nazareno la replica è dura: il Pd ha fatto cadere la pregiudiziale su Conte – Zingaretti ha ingoiato il rospo – ma prima di dire sì al governo vuole vederci chiaro almeno sulla manovra d’autunno. E su questo fra le due forze c’è «molta distanza». In realtà a quell’ora il vero macigno sulla strada dell’accordo è proprio Di Maio. Si ripropone come vicepremier, chiede un omologo dem per certificate la natura «super partes» di Conte. Niet dal Pd. Di Maio si propone anche per il Viminale, nell’infantile sogno di collocarsi nel posto che ha fatto la fortuna di Salvini. Anche qui il Pd fa muro: il ministero degli interni deve essere una delle chiavi della discontinuità del nuovo esecutivo.

Dal Nazareno arrivano parole dure: «L’accordo di governo rischia di saltare per le sue ambizioni personali. Non sente ragioni e va avanti a colpi di ultimatum». Per la prima volta è d’accordo anche il Pd di rito renziano: «Sono uno serio e responsabile. Credo al Governo Istituzionale. E mi va bene anche Conte. Ma se devo accettare Di Maio al Viminale, per me si può andare a votare subito», twitta Francesco Bonifazi. In realtà fra i renziani ci sono opinioni molto più tolleranti: «Non possiamo umiliare troppo i gigini, bisogna evitare la guerra per bande nei 5 stelle, se no diventano pecore senza pastore e non si campa, meglio tenerlo lì». Ma anche a Palazzo Chigi e nei 5S il personalismo disperato del leader è ormai insopportabile: «Sono sicura che il nostro capo politico non antepone se stesso al Paese. Non sarebbe da 5 Stelle», sibila Roberta Lombardi, capogruppo alla regione Lazio e punta di diamante dei rapporti con Zingaretti.

È a questo punto che parte la prima – di molte – telefonata fra di due ‘numeri primi’ Zingaretti e Conte. Da Palazzo Chigi arriva, informale ma non meno chiaro, un ridimensionamento alle ambizioni del capo pentastellato: «In presenza del presidente Conte, non è mai stata avanzata la richiesta del Viminale per Di Maio, né dal M5S né da Di Maio stesso».

Da qui, siamo all’ora di pranzo, al Nazareno l’atmosfera si rilassa. Alle 16 Zingaretti riunisce la cabina di regia, una delle tante riunioni di giornata in cui è scortato da Gentiloni e Franceschini. Ripresa la trattativa, per i due sembrano pronti posti di prestigio: rispettivamente commissario europeo e vicepremier unico (sempreché Di Maio accetti la Difesa). Ma Zingaretti spiega che il programma resta il punto: in quelle stesse ore Salvini firma il divieto di ingresso nelle acque italiane per la nave Eleonore, della ong Lifeline, e puntuale arriva la controfirma del ministro Toninelli. Per il Pd è l’ennesimo provvedimento inaccettabile.

E infatti quello delle politiche migratorie è uno dei dossier più delicati sul tavolo dei capigruppo che finalmente si rivedono a Montecitorio alle 18. I due capigruppo dem Delrio e Marcucci, accompagnati dalla vicesegretaria De Micheli, portano il ponderoso programma scritto dallo stato maggiore del Nazareno domenica, in quei tavoli sui quali i 5 Stelle avevano sghignazzato. A fine incontro gli sherpa dem sono ottimisti: «Il lavoro continua in maniera profittevole», assicura Marcucci. Al Nazareno riparte il totonomi: al posto di Franceschini potrebbe andare l’ex ministra Pinotti, Orlando sottosegretario a Palazzo Chigi, alle pari opportunità Cerno o Cirinnà, agli Esteri Amendola o l’ambasciatore Sarzano, all’agricoltura il renzianissimo Nobili. Si vedrà.

L’unica certezza è che Zingaretti non entrerà al governo. I suoi escludono che si tratti di un passo indietro: «Abbiamo sempre creduto che ci serve un presidio forte al partito, sarebbe assurdo rimangiarselo ora». Oggi la direzione dem è convocata per le dieci ma per quell’ora è convocata anche una nuova riunione dei capigruppo a Montecitorio. Sempreché nella notte non arrivino novità dalle tormentate riunioni del M5S. Il tempo stringe. Nel pomeriggio il Colle si aspetta la parola finale.