La comunità internazionale dimentica in fretta. Dimentica di aver giustificato i primi raid contro lo Stato Islamico in Iraq, nell’agosto 2014, con la protezione dei civili yazidi in fuga. Bombe “umanitarie” a cui oggi segue l’indifferenza. L’emergenza è alle porte, spiega al manifesto il capo missione di Medici Senza Frontiere in Iraq, Fabio Forgione, di stanza a Erbil: a ottobre non ci saranno più soldi per sostenere i 500mila rifugiati nel Kurdistan iracheno.

Quando ci sentimmo, lo scorso anno, ci raccontò di famiglie intere costrette a vivere per strada o in edifici in costruzione. Oggi nel Kurdistan iracheno i campi riescono ad accogliere i 500mila rifugiati presenti?

La situazione dell’accoglienza è cambiata notevolmente rispetto allo scorso anno: sono stati aperti decine di campi, in cui la maggioranza dei profughi si concentra. Dei 500mila rifugiati che ancora popolano i tre distretti kurdi, il 65-70% sono in campi in cui le organizzazioni internazionali e le autorità kurde hanno progressivamente cominciato a fornire servizi medici e sanitari, alloggio, distribuzione del cibo. E hanno aperto scuole: la tendenza è quella di fornire i campi (soprattutto quelli più grandi che ospitano tra i 15mila e i 30mila rifugiati) propri istituti educativi.

All’interno di tale contesto, però, una delle preoccupazioni che abbiamo è l’affievolimento dell’interesse della comunità internazionale e quindi dei fondi dei donatori. Oggi solo una minima parte, il 20%, del budget complessivo necessario alla copertura dei bisogni è effettivamente stato versato. Così anche nel Kurdistan iracheno, servizi che prima erano disponibili ora stanno scemando perché i fondi sono diminuiti. Si stima che tra ottobre e novembre il 60-70% dei progetti delle organizzazioni internazionali in Kurdistan potrebbe terminare. E questo avrebbe effetti disastrosi: oltre ai bisogni dei rifugiati, dopo un anno, si è creato anche un problema di assorbimento da parte delle comunità locali. Entrambi necessitano di assistenza: diminuire i servizi potrebbe generare un peggioramento dell’assistenza umanitaria.

Ad un anno dall’assedio del Sinjar e della fuga in massa della popolazione yazidi, qual è oggi la situazione degli sfollati interni nel resto dell’Iraq?

Rispetto al 2014 si è avuto un netto peggioramento della situazione sul piano umanitario, anche a causa delle successive battaglie, la liberazione di Tikrit, i continui scontri in Anbar, nelle zone fuori Mosul, a Baghdad, a Diyala. Questo ha generato ulteriori flussi di profughi. In tutto l’Iraq oggi si contano quasi 4 milioni di sfollati interni che si vanno ad aggiungere ai 250mila rifugiati siriani già presenti dal 2012. Ormai non c’è area nel centro e nel nord del paese che non sopporta carichi enormi in termini di accoglienza.

Dall’altra parte non si assiste ad un corrispettivo incremento dell’aiuto umanitario: la maggior parte degli sforzi si concentrato nel Kurdistan iracheno, a Erbil, Dohuk e Sulaymaniyah, lasciando il resto dell’Iraq quasi del tutto scoperto. Ed è precisamente in queste aree, il sud di Kirkuk, la provincia di Ninawa e le periferie di Baghdad, che Msf cerca di operare per raggiungere queste sacche di profughi.

Per quale ragione la gran parte degli sfollati interni non entra in Kurdistan, la zona più sicura del paese?

L’ingresso in Kurdistan è legato a motivi di natura etnica. Coloro che sono direttamente o indirettamente considerati arabi sunniti, quindi collegabili [dai peshmerga] ai gruppi armati che occupano l’ovest dell’Iraq, non hanno possibilità di accedere e si trovano ancora ammassati lungo le linee del fronte dove la sicurezza rappresenta un serio problema e l’accesso ai servizi da parte delle organizzazioni umanitarie è estremamente ridotto.

Oggi in Iraq si assiste ad un livello altissimo di polarizzazione dove la situazione riguardante la sicurezza ha subito un netto deterioramento. Le varie amministrazioni temono che, all’interno degli ingenti gruppi di rifugiati che continuano a cercare di entrare in aree più sicure, ci siano individui legati ai gruppi estremisti sunniti. Questa preoccupazione porta a controlli molto rigidi lungo le frontiere che delimitano oggi il Kurdistan iracheno.

Nel resto del paese quindi si trovano 3 milioni di sfollati, per lo più sunniti. Esistono campi profughi dove essere accolti?

Sono numeri enormi, basti pensare alle centinaia di migliaia di civili fuggiti da Mosul e rifugiatisi nelle città meridionali di Najaf e Karbala, quelli fuggiti da Anbar verso Baghdad e Salah-a-din. Ci sono altri campi fuori dal Kurdistan, creati nel tentativo di concentrare numeri più alti possibili di persone in determinate località, ma la maggior parte dei profughi non si trova in zone sicure: si tratta per lo più di arabi sunniti bloccati in zone cuscinetto dove per noi è difficile entrare e per loro è difficile accedere a servizi primari.

In che modo organizzazioni come Msf riescono a raggiungere, almeno in parte, questi gruppi di rifugiati?

Cerchiamo di aprire e mantenere un dialogo con tutti gli attori, con le differenti milizie che controllano queste aree: l’accesso da parte nostra è giustificato solo ed esclusivamente da ragioni mediche. Questo, in maniera graduale e progressiva, ha permesso ai nostri team medici di guadagnare terreno e raggiungere aree come Abu Ghraib a Baghdad e zone nella provincia di Salah-a-din, 100-150 km a sud di Kirkuk.