È in corso una svolta nella guerra in Libia. Dopo il fallimento dell’accordo di unità nazionale, mediato dall’inviato delle Nazioni unite, Bernardino León, che è rimasto solo sulla carta e non è stato approvato dai parlamenti di Tripoli (nella cui periferia solo ieri si contavano 9 morti) e Tobruk, la scorsa domenica è stato annunciato un accordo-bis a Tunisi con la benedizione dell’Alleanza atlantica.

L’iperattivismo della Nato è arrivato in un momento molto preciso, quando cioè la Francia di Hollande ha deciso di riprendere il controllo del fronte libico, abbandonato da Sarkozy nel 2011. Parigi e Washington hanno compiuto raid su Sirte e Tobruk, partiti dalla portaerei Charles De Gaulle, pochi giorni dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre scorso. Il ragionamento è questo: se la leva delle migrazioni è fallita per giustificare un nuovo intervento in Libia, è meglio puntare sul piano B. La Nato deve assicurare il suo rinnovato impegno in Libia per debellare lo Stato islamico (Is), che si sta rafforzando in Libia in seguito agli attacchi contro i jihadisti a Raqqa. E il gioco è fatto: la giustificazione per ripetere i gravissimi attacchi del marzo 2011 è servita su un piatto d’argento.
A conferma che la Nato è pronta a tornare in Libia, sono arrivate le parole pronunciate dal Segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg. «Ci teniamo pronti ad assistere un governo nazionale, se ce ne farà richiesta», ha ammesso Stoltenberg in un’intervista all’agenzia Lena.

Ma anche la Nato dovrà fare i conti con la situazione sul campo che è molto diversa da come viene rappresentata. L’intesa-bis prevede la creazione di un comitato di 5 membri per ciascuno dei due parlamenti che dovrà nominare un premier e due vice in rappresentanza di Tripoli e Tobruk, entro quindici giorni. L’accordo-bis prevede poi il ritorno alla Costituzione libica di Gheddafi e quindi l’azzeramento della transizione avviata a fatica nel 2011 e che ha portato alla formazione del parlamento di Tripoli e al governo guidato dai Fratelli musulmani libici.

Questa accelerazione è molto pericolosa perché proprio negli ultimi giorni i moderati delle due fazioni sembravano aver trovato nuova linfa per mettere in atto l’accordo, raggiunto con la mediazione Onu del diplomatico León, trasferitosi negli Emirati con uno stipendio da capogiro dopo aver finito il suo mandato. E anche l’avvicendamento alla guida della missione Onu in Libia, ora nelle mani del tedesco Martin Kobler, suona con il senno di poi come un tentativo di estromettere le Nazioni unite a favore della Nato nella gestione del paese. Tentativo per nulla ostacolato dall’Italia che come al solito è rimasta a guardare in attesa della conferenza del prossimo 13 dicembre a Roma, che sembra come al solito una vetrina di decisioni prese altrove.

Kobler, pur di dimostrare di avere ancora la situazione sotto controllo e di accreditarsi come interlocutore valido, aveva annunciato un incontro almeno discutibile con l’auto-proclamatosi capo delle Forze armate libiche, Khalifa Haftar. L’incontro è stato cancellato all’ultimo momento dallo stesso parlamentino di Tobruk che neppure riconosce univocamente l’autorità di Haftar. Kobler aveva visitato il Cairo solo pochi giorni fa. Qui ha raccolto la consueta dura opposizione di al-Sisi che vorrebbe decapitare gli islamisti di Tripoli: «Il governo di pacificazione potrà insediarsi solo dopo che Tripoli sarà liberata da islamisti e miliziani».

Nel febbraio scorso l’Egitto ha cercato di accreditarsi come deus ex machina del conflitto libico, tentando di legittimare una possibile risoluzione Onu in suo favore che implicasse un attacco contro Tripoli e l’invio di truppe di terra. Ma anche al Cairo non tutti concordano sulla sorte della Tripolitania. Il ministro degli Esteri egiziano ha salutato ieri con soddisfazione l’accordo-bis di Tunisi perché di sicuro favorisce Tobruk che invece dovrebbe essere notevolmente ridimensionato in negoziati corretti.

Nei giorni scorsi un emissario del parlamentino, ormai decaduto, di Tobruk aveva incontrato in carcere a Zintan, Saif al-Islam, figlio di Muammar Gheddafi. L’amnistia di Tobruk, che cerca di accreditarsi a fatica come in continuità con il regime precedente, dovrebbe essere applicata anche a Saif. In realtà, Human Rights Watch ha denunciato che al-Islam è detenuto in pessime condizioni di isolamento.