Racconta un sogno e perderai un lettore, diceva Henry James, ma non sarà certo questo il caso di Tre vivi, tre morti di Ruska Jorjoliani (Voland, pp. 200, euro 16), che si apre proprio su una soglia, un passaggio dalla veglia al sonno in cui lo smarrimento della cognizione del tempo è pedaggio necessario affinché si realizzi la sospensione d’incredulità del lettore.

D’ALTRA PARTE «non si può non credere a un padre che si sveglia alle prime luci dell’alba», un genitore intravisto solo di spalle, figura fantasmatica sulle cui orme ci si incamminerà in questo breve romanzo in cui le informazioni sono centellinate e si procede un po’ a tentoni. Le storie che lo compongono sembrano difatti scorrere per binari separati fino a uno scambio drammatico.
Guerino Santoni, figlio di un ex ufficiale della Grande guerra rimasto vedovo e amareggiato, si accenderà di una passione tiepida per il fascismo grazie all’entusiasmo di uno zio squadrista che lo traghetterà inesorabilmente verso il lato sbagliato della Storia, prima in un chilometrico «lombrico scuro di uomini» che fende la steppa innevata nella grande ritirata dall’Unione Sovietica e poi nelle file dei repubblichini.

ANNI DOPO, quella di Modesto e Aurora sembra tutt’un’altra vicenda: una coppia di insegnanti, entrambi fedifraghi e insoddisfatti, immersi in una Firenze circonfusa dalla nuova aria del boom. Il tran tran quotidiano di marito e moglie, fatto di una vita solo apparentemente comune, sarà invece deragliato da una lettera che inchioda il primo con le spalle al muro riguardo a una vecchia storia dei tempi della guerra.

La mossa del cavallo che campeggia in copertina è anche un po’ la struttura del romanzo: due esplorazioni orizzontali per uno scatto in verticale. A muovere la pedina in questa scacchiera dalla superficie irregolare è Ruska Jorjoliani. Nata trentaquattro anni fa a Mestia, in Georgia, vive a Palermo dal 2007, ma ambienta il suo romanzo tra Toscana, Abruzzo e Russia nell’arco che corre dagli anni ’30 ai ’50 del secolo scorso. In Italia c’era già stata per tre mesi da bambina quando in Abcasia infuriavano le milizie e la pulizia etnica. Una volta tornata per rimanere ha fatto propria la lezione dei nostri scrittori come nei migliori casi delle letterature diasporiche, ma questo debito sembra essere ancora troppo cogente in questa sua seconda prova che arriva a cinque anni dall’esordio La tua presenza è come una città (Corrimano).

LADDOVE SAREBBE LECITO e forse anche auspicabile attendersi una lingua sghemba e inciampante che si innervi sull’italiano letterario comunemente praticato il lettore troverà invece una scrittura pazientemente addomesticata, arricchita da un lessico che ci cala senza equivoci in quegli anni che precedono e seguono il secondo conflitto mondiale.
Jorjoliani poi si abbevera alla grande tradizione del dopoguerra che ancora oggi sembra nutrire gran parte della letteratura a produzione nostrana, così faranno la loro comparsa partigiani, fascisti, ma anche l’immancabile tinello piccolo borghese, i nostalgici alimentari novecenteschi, i teatri pieni e le file per entrare al cinema.
Il titolo del romanzo, Tre vivi, tre morti, fa riferimento a un classico dell’iconografia medievale e in particolare all’affresco del duomo di Atri che raffigura un macabro incontro fra scheletri che presentano il conto ai viventi.

JORJOLIANI lo rimette in scena in un racconto allegorico dove niente è come sembra e le ombre del passato torneranno a bussare a un presente spensierato. Il rischio che si prende il romanzo e la sua autrice lo intuisce Aurora che nel suo diario teme che «appena scritte le cose perdano di significato, che il senso si sposti dalle vicende alle lettere e invece di districarle le cose della vita rimangano non meno aggrovigliate di prima».