Una tregua di sette giorni e il 29 febbraio la firma dell’accordo di pace. Ieri il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, e i Talebani hanno confermato ufficialmente le date – già anticipate dal manifesto – che segnano lo storico accordo tra gli studenti coranici e l’amministrazione Trump. Dalla mezzanotte di ieri, venerdì, in tutto l’Afghanistan è in atto una riduzione significativa della violenza.

Né i Talebani né Pompeo hanno fornito dettagli, ma l’impegno reciproco è deporre le armi, evitare gli attacchi, consolidare sul terreno la fiducia faticosamente costruita a Doha nel corso dei lunghi negoziati tra l’inviato del presidente Trump, Zalmay Khalilzad, e la delegazione talebana guidata da mullah Abdul Ghani Baradar.

Da quanto emerso ufficiosamente, i Talebani eviteranno di attaccare basi militari, città, strade principali, portando da 75 a massimo 15 gli attacchi giornalieri. Un test per dimostrare il controllo della leadership sulla catena di comando, giù fino ai militanti di basso rango.

Nei tre giorni di tregua informale del giugno 2018, i Talebani avevano già sorpreso gli osservatori dimostrando pieno controllo, ma il governo afghano nei mesi scorsi ha insistito affinché gli americani includessero una nuova tregua come atto preliminare alla firma dell’accordo, già chiuso nel settembre scorso, prima che Trump, decidesse senza preavviso di interromperlo.

A fine novembre Trump è tornato sui suoi passi dando nuovo via libera ai colloqui, arrivati ora a una svolta. Da oggi, per una settimana, le forze americane resteranno in «postura difensiva», pronte soltanto a difendersi, se attaccate. Lo stesso vale per le forze afghane: il presidente Ashraf Ghani in un discorso alla nazione ha detto di essere pronto, «come comandante supremo delle forze armate», ad assicurare il rispetto del piano di tregua.

Ghani ha avallato la tregua, ma invoca prudenza. Fino a pochi giorni fa non ha risparmiato attacchi e colpi bassi contro i Talebani, come fatto dal suo vice, l’ex capo dei servizi segreti Amrullah Saleh. Il presidente si mostra sicuro, ma è politicamente fragile.

Il 18 febbraio la Commissione elettorale, dopo ben cinque mesi dalle presidenziali, gli ha finalmente attribuito la vittoria con il 50,64% dei voti (924mila circa), appena sufficiente a evitare il ballottaggio con Abdullah Abdullah (39.52% dei voti, 721mila circa) e che non ha accettato i risultati, annunciando l’istituzione di un governo parallelo.

Ieri Pompeo ha auspicato la nascita di un team negoziale afghano ampio e inclusivo, ma le divisioni politiche post-elettorali fanno presagire spaccature ulteriori, che i Talebani sapranno ben sfruttare negli eventuali dialoghi intra-afghani.

L’accordo tra Washington e Talebani prevede che inizino entro una decina di giorni dalla firma dell’accordo, che rimanda un eventuale cessate il fuoco prolungato al negoziato domestico e chiarisce solo due punti: il ritiro delle truppe straniere e l’assicurazione che i Talebani rinuncino ai legami con al-Qaeda, impediscano che l’Afghanistan venga usato da gruppi jihadisti, continuino a combattere contro la branca locale dello Stato islamico.

Washington si impegna a ridurre i soldati dagli attuali 13mila a 8.600 entro 135 giorni dall’accordo, con il disimpegno successivo legato al rispetto dei patti da parte degli studenti coranici, che condivideranno informazioni di contro-terrorismo con gli americani. Un processo lungo, con molte incognite. Ancora di più quelle che riguardano il dialogo intra-afghano, quando e se comincerà.