A due settimane di distanza dagli attentati dell’11 settembre 2001, il «New Yorker» pubblicò in chiusura del suo numero speciale dedicato all’attacco Try To Praise The Mutilated World, una poesia di Adam Zagajewski nella traduzione di Clare Cavanagh, che venne unanimemente percepita come una reazione diretta a quei drammatici eventi. Esortando se stesso a non soffocare il proprio canto nonostante le risa trionfanti dei «carnefici», Zagajewski delinea una poetica del «malgrado tutto», tenacemente aggrappata ai brandelli di bellezza che, per quanto fragili, sussistono intorno a noi: «Canta il mondo storpiato / e la penna grigia perduta dal tordo, / e la luce delicata che erra, svanisce / e ritorna». Nell’emotività di quei giorni l’autore polacco finì così per diventare «The poet of 9/11» (come titolò «Newsweek») tanto da ispirare al critico Harvey Shapiro questa caustica osservazione: «È come se l’America stesse entrando nell’incubo della Storia per la prima volta e solo un poeta polacco potesse indicarci la strada».

Notevole fu dunque lo stupore quando si apprese che quella lirica, scritta in realtà ben prima degli attentati, si riferiva a un viaggio di Zagajewski nei pressi della città di Leopoli dove era nato nel 1945. Grazie ai processi di autoidentificazione suscitati nei lettori newyorkesi, e quasi a smentire la nozione di «secolo breve», l’immagine di Ground Zero si sovrapponeva in dissolvenza a una altra terra desolata, i villaggi immiseriti dell’Ucraina occidentale, abbandonati dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Una regione, quella della Galizia ex asburgica e poi sovietica, che nella mitologia privata coltivata dall’autore occupava da sempre un posto centrale.

A pochi mesi di vita, infatti, Zagajewski era stato deportato da Leopoli insieme ai genitori su uno di quei carri bestiame che, secondo lo storico tedesco Karl Schlögel, sono l’emblema del Ventesimo secolo. Sotto la pressione dei sovietici, a un tempo liberatori dall’occupazione nazista e invasori, i confini della Polonia venivano spostati progressivamente verso ovest, insieme agli abitanti dei territori contesi. In seguito a un processo di epurazione etnica pressoché speculare, Zagajewski si ritrovò a crescere a Gliwice, in Slesia, regione da sempre tedesca, la cui popolazione era stata espulsa per far spazio ai profughi polacchi provenienti da est.

Non stupisce, dunque, che l’immagine remota di Leopoli abbia assunto nella sua opera i contorni di un Eden, di una Heimat perduta, mai esperita nella realtà e pertanto idealizzata nell’attesa del ritorno. Rivendicando il suo diritto di appartenenza a una città che aveva dato i natali a Leopold von Sacher-Masoch, ma anche allo scrittore di fantascienza Stanislaw Lem, al regista Andrzej Zulawski e al poeta Zbigniew Herbert, Zagajewski si richiamava al mito dei Kresy, il limes sudorientale della repubblica secentesca polacco-lituana, periferia multiconfessionale e plurietnica che, nel confronto dialettico con l’altro da sé, era diventata nel corso dei secoli il simbolo stesso dell’identità polacca – tanto nelle proiezioni romantiche del vate Adam Mickiewicz quanto in quelle novecentesche di un altro esule, Czeslaw Milosz.

Ma Zagajewski non si limita affatto al ruolo di cantore di una Polonia astorica, pressoché leggendaria, che in conseguenza di spartizioni tra imperi e slittamenti territoriali, è ovunque «e da nessuna parte», come nell’Ubu re di Alfred Jarry. Espatriato per motivi politici grazie a una borsa di studio a Berlino all’inizio degli anni Ottanta, poi residente a Parigi fino al 2002, l’orfano di Leopoli è oggi un intellettuale cosmopolita, docente di Creative Writing e letteratura polacca all’università di Chicago, che, pur conservando intatta una certa sprezzatura, rivela la sua disponibilità crescente a confrontarsi con il mondo contemporaneo. Lo dimostra la raccolta Asymetria (Asimmetria, 2014), in cui il tema dell’esilio e della cacciata dall’Eden è riconfigurato sotto forma di eterno nomadismo o di globale flânerie sullo sfondo spersonalizzato dei terminal aeroportuali o degli ex paradisi naturali fagocitati dal turismo di massa.

Immutato nell’Io lirico resta lo spaesamento, la sensazione che il poeta intrattenga con il reale un rapporto sbilanciato a favore della dimensione simbolica e destinato a risolversi fatalmente nei termini di un’asimmetria. Questa propensione, d’altronde, lo porta a cogliere fuggevoli attimi di epifania, e la speranza che, «malgrado tutto», a forza di disgiungere e unire immagini, si possa ricostituire finalmente un senso.
Appartenente alla generazione successiva a quella di Milosz, Herbert e Wislawa Szymborska, la cui piena maturità ha coinciso con la caduta dei regimi comunisti, Zagajewski sembra l’interlocutore ideale per discutere del «prima» e del «dopo» alla luce di quella svolta della sua scrittura che traspare anche dalla raccolta appena uscita a Cracovia, Prawdziwe zycie (La vita vera).
Nonostante la penuria di traduzioni – di Zagajewski in italiano è disponibile una unica, ampia silloge, Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005, nella resa di Krystyna Jaworska per Adelphi, e i saggi di Tradimento, a cura di Luca Bernardini – il poeta polacco è spesso ospite di festival letterari nel nostro paese: lo abbiamo incontrato a Vercelli, dove gli è stato assegnato il premio «Poesia civile».

Partiamo dal titolo del suo ultimo libro, «La vita vera», molto ambizioso, a dispetto dell’ironia che sembra prevalere nella sua produzione recente.
In realtà l’ironia c’è ancora: mi riferivo alla frase di Emmanuel Lévinas, «La vita vera è altrove, ma noi siamo qui»: l’ho scelta come esergo, perché mi pare sintetizzi bene la tensione tra l’esistenza empirica, hic et nunc, il punto in cui ci collochiamo casualmente, e questa fantomatica «vita vera», che ci sfugge e di cui possiamo afferrare qualche frammento solo di tanto in tanto, grazie alla musica o alla poesia, oppure nella religione, come capita a qualcuno. Non che io sappia cos’è «la vita vera», mi limito a osservare con Lévinas che noi tutti vorremmo essere lì, esistere in quella dimensione compiuta.
In fondo, questa contrapposizione tra un qui inessenziale e un altrove ideale si ritrova in tutta la sua opera, sotto forma di antinomia tra Leopoli e Gliwice, la città celeste e quella terrena, che lei ha restituito in termini «negativi», come l’alternativa «peggiore»: una sorta di anti-Leopoli. Solo ultimamente, nelle due liriche che le ha dedicato in Asimmetria, Gliwice sembra acquisire una fisionomia propria. Può darsi, che un po’ paradossalmente, questo maggior risalto sia un effetto della distanza temporale?
Sì, forse col passare del tempo ho finito per riconciliarmi con Gliwice. Anche se nel dopoguerra era davvero una città tremenda, grigia, industriale, abitata da una popolazione straniera che non aveva nulla a che fare con quei luoghi e parlava una lingua portata da est. Sono cresciuto a Gliwice con la sensazione che fosse soltanto una residenza temporanea, che non dovessi affezionarmi a quelle vie, a quelle case. I miei genitori soffocavano sul nascere ogni mio entusiasmo infantile, facendomi notare che quanto contava davvero era rimasto a Leopoli… D’altra parte, eravamo degli intrusi: la realtà circostante era tedesca, o meglio post-tedesca, i nostri mobili, gli oggetti che utilizzavamo ogni giorno erano gli stessi che si erano lasciati dietro gli abitanti di un tempo. Quindi esistevano almeno tre Gliwice: la città tedesca tragicamente vuota, quella della minoranza polacca che aveva sempre vissuto lì, e la nostra. Era un luogo totalmente estraneo a qualsiasi tradizione umanistica, e tuttavia proprio lì viveva il poeta all’epoca più famoso in Polonia, Tadeusz Rozewicz, che vi si era trasferito volontariamente da Cracovia, in una sorta di esilio interno. La casa in cui abitava era situata in fondo alla via dove si trovava il mio liceo ed era circondata da una aura di leggenda. Prima di lui avevo già incontrato Zbigniew Herbert, che all’inizio degli anni Sessanta fu invitato a leggere i suoi versi nella nostra scuola. Sebbene all’epoca non me ne rendessi conto, questa coincidenza topografica ha un che di simbolico: da una parte Rozewicz, cantore apocalittico e disperato, convinto che con la Shoah fosse finito tutto e che l’eventualità stessa che i giovani continuassero a scrivere fosse un’assurdità; e – all’estremità opposta della stessa strada – Herbert il moralista, intento a dialogare con gli studenti. Fu allora che ebbi la sensazione che nel mondo esistesse anche qualcos’altro oltre alla noiosa e provinciale Gliwice…
Difatti da lì a breve lei si trasferì a Cracovia per studiare psicologia e filosofia, ed è qui che nel 1967 avvenne il suo esordio letterario sulla rivista «Zycie literackie», grazie alla redattrice che allora era in redazione, Wislawa Szymborska. Da una città all’altra, da Berlino a Parigi e poi di nuovo a Cracovia, la sua è da sempre una poesia di luoghi concreti, come se gli orizzonti puramente verbali offerti dalla letteratura non fornissero un reale rifugio ai loro autori. È questo che intendeva quando in «La nuvola» ha scritto: «I poeti costruiscono per noi una casa – loro però / non possono abitarla?»
Certo, è la stessa opposizione di cui parlavo prima: tra qui e altrove, tra empirico e ideale. I poeti costruiscono rifugi di parole per i lettori, che però non potranno mai risiedervi stabilmente perché un’ossessione diversa li spingerà ben presto allo scoperto, in cerca di un nuovo riparo verbale che, tuttavia, si rivelerà non meno effimero del precedente. D’altronde, le uniche dimore fisse su cui possono contare sono in genere le meno desiderabili – penso a Hölderlin folle, rinchiuso nella sua torre a Tubinga, o al nostro vate romantico Cypran Norwid, ridotto in miseria e costretto a languire in un ospizio. Proprio per questo, per scrivere ho bisogno della tangibilità di luoghi che esistono al di fuori della mia immaginazione, punti geografici a cui la Storia ci àncora, sebbene dolorosamente.
A questo riguardo, è significativa la centralità che il tema della Shoah ha assunto di recente nella sua opera, quasi lei sentisse il desiderio di violare programmaticamente non solo l’impossibilità adorniana di scrivere poesia dopo Auschwitz, ma anche il tabù culturale di scrivere su quanto vi accadde dalla posizione di un osservatore esterno.
Credo che questa sia una diretta conseguenza del mio ritorno in Polonia: abitando a Cracovia è pressoché impossibile non sentire questa presenza, satura la terra su cui camminiamo quotidianamente. D’altronde, quando sono nato nel giugno 1945, i meccanismi dello sterminio si erano fermati soltanto da sei mesi. Ho sempre avuto l’impressione che quegli avvenimenti abbiano lasciato in me non una ferita, come chi li ha vissuti direttamente, ma quantomeno una cicatrice. D’altro canto, la scomparsa quasi completa della comunità ebraica polacca, prima con la seconda guerra mondiale, poi con l’emigrazione intorno al 1968, ha precipitato il nostro paese in quel marasma monoetnico che sperimentiamo ora con l’attuale governo. Mi riferisco alla pretesa che la Polonia appartenga ai soli «polacchi», come se la nostra identità non avesse accolto nei secoli gli apporti più svariati. È la prospettiva che Milosz lamentava già nel 1959, quando in La mia Europa sosteneva che la Polonia socialista postbellica per ironia della sorte stava realizzando i sogni dei nazionalisti, in quanto priva di minoranze.
A proposito di Milosz, lei nel 2004 ha scritto un saggio, «In difesa dell’ardore», in cui si scaglia contro il disimpegno ironico e l’assenza di serietà che vedeva prevalere nella produzione poetica di allora. A questo stile «tiepido» lei contrappone quello slancio consapevole della tragicità dell’esistenza, che a suo giudizio trova la sua migliore estrinsecazione proprio nell’opera di Milosz, con la sua capacità di riconciliare illuminismo e romanticismo. Eppure, se guardiamo ai suoi ultimi versi, un distacco pungente sembra prevalere. Quel programma ha perduto per lei la sua attualità, o più semplicemente la vita l’ha portata altrove?
Per me è difficile giudicare, ma ho notato che, man mano che invecchio, la mia scrittura tende alla semplificazione, alla brevità, al minimalismo. In gioventù ero molto più barocco, miravo intenzionalmente a uno stile «alto», che tuttavia per me non ha mai escluso l’ironia… Anche adesso mi piacerebbe continuare a scrivere così, ma non ci riesco!
Lei ha inaugurato nella letteratura polacca un nuovo genere: l’autoritratto in poesia. Difficile immaginare Szymborska o Herbert intenti a raffigurarsi in maniera così esplicita. Al contrario, sfogliando le sue raccolte, troviamo «Autoritratto non scevro da dubbi», «Autoritratto in aereo», perfino un «Autoritratto con flebo». Quali esigenze si nascondono dietro la stesura di questi componimenti che, per leggerezza e istantaneità, ricordano un autoscatto?
È una suggestione che attingo a una determinata tradizione pittorica e che per me si lega, ancora una volta, al bisogno di tangibilità, all’esigenza di collocarmi su uno sfondo. Ultimamente, scrivere autoritratti è diventato per me una specie di gioco, come se dovessi aggiornare il ritratto che mi ero fatto tanti anni fa quando vivevo ancora a Parigi; ma ho anche la sensazione che tra un componimento poetico e un volto umano esista una profonda affinità: entrambi condividono la maggior concentrazione possibile di significato nel minor spazio fisico. Sia un volto sia una poesia si prestano a essere descritti e misurati, ma sono anzitutto un appello rivolto alla nostra attenzione.