Dopo giorni di polemiche senza esclusione di colpi tra Lega e Movimento 5 Stelle, Matteo Salvini prova a smorzare i toni e circoscrivere il campo di battaglia: «I miei avversari sono quelli che governano da sempre in Europa, Pd e Forza Italia. Se il M5S andasse bene vorrebbe dire che l’azione di governo è stata apprezzata», dice tentando si spostare la barricata al di fuori della maggioranza gialloverde.

Ma tra i 5S, che hanno sempre bisogno di un avversario per macinare slogan e motivare le truppe, si respira un clima meno amichevole. Già nel tardo pomeriggio, tra i supporter del Movimento in fila davanti alle transenne della piazza romana, alla Bocca della verità, quando si parla dell’avversario da battere si sente quasi solo il nome del leader leghista. Tanto che quando un motorino sfreccia lanciando urla di scherno, i grillini esclamano automaticamente: «Sarà uno che sta con Salvini!».

Di Maio si mantiene fedele alla linea narrativa degli ultimi tempi quando dice che questa campagna elettorale «è stata condizionata da chi ha minacciato di far cadere il governo ogni giorno, da chi ha attaccato i magistrati nel goffo tentativo di proiettare all’esterno un nemico immaginario, solo perché incapace di cacciare un proprio uomo indagato per corruzione» attacca senza tanti giri di parole la Lega. La critica al Pd arriva solo in seconda battuta, di rimbalzo. Nicola Zingaretti viene accusato di non fare opposizione alla Lega quanto il M5S che però sta in maggioranza con Salvini, e si finisce in un labirinto di posizionamenti. «Chiedetevi perché non ha mai chiesto le dimissioni dell’ex sottosegretario Siri».

Però bisogna leggere tra le righe. Perché quando tutti, da Di Maio in giù, assicurano che il limite dei due mandati non si tocca, evidentemente scommettono sulla durata del governo e rassicurano molti degli eletti. Questa del vincolo elettivo è una mossa identitaria che torna utile subito prima del voto ma serve anche a dare un segnale alle assemblee regionali, che hanno dato un’indicazione in questo senso e che aspettano che i vertici facciano la sintesi per ridefinire l’organizzazione del M5S.

Dal palco, in attesa che Virginia Raggi apra le danze e poi arrivino le donne scelte da Di Maio per fare da capolista nelle cinque circoscrizioni elettorali, lo schermo proietta le storie degli «italiani che hanno ricevuto il reddito di cittadinanza». In mezzo al pubblico, non numerosissimo, circolano i santini dei candidati. Volti sorridenti che per una misteriosa scelta di marketing elettorale sono raffigurati tutti con un paesaggio unico a far da sfondo uniforme. Una specie di screensaver valido per tutto il paese, dalle Alpi alla Sicilia: c’è una collina verdissima e squadrata con un filare di alberi.

Compare Alessandro Di Battista. Al suo ritorno in piazza, il figliol prodigo del M5S è circondato da tifosi. Lui si posiziona al banchetto delle sottoscrizioni, afferra un pennarello per firmare le magliette in vendita e si gode il bagno di folla: «Quanto me siete mancati», esclama. «Questo governo ha fatto altro, non solo i selfie di Salvini», dice davanti alla coda di persone in fila per farsi un selfie con lui. Ma proprio dal personaggio che non ti aspetti, quel Dibba che agli occhi degli attivisti di base rappresenta il ritorno alle origini un po’ ingenue ma barricadere, arrivano messaggi concilianti. «La Lega ne ha toppate parecchie – dice – Ma credo proprio che questo governo andrà avanti per altri quattro anni, è quello che vogliono anche Pd e Forza Italia».

Alla fine, anche Di Maio ammette che i margini perché la maggioranza regga ci sono tutti: «Se Salvini accetta di combattere la corruzione, non avremo problemi a proseguire». Ma da Castel San Giovanni, nel piacentino, dove tiene il suo ultimo comizio, il leghista avverte: «Ho sentito qualche insulto di troppo dal M5S, conto che da lunedì tornino educati e dicano dei sì. E’ chiaro che se la Lega uscirà in crescita, le idee della Lega avranno più forza».

Intanto a Roma arriva Davide Casaleggio, presentato dal fedelissimo Max Bugani che per la prima volta sale su un palco in occasione di un appuntamento nazionale e, mettendo le mani avanti, parla del responsabile della piattaforma Rousseau come di «uno che non ha ereditato nulla, ha sempre fatto la sua parte». Il figlio di Gianroberto mette il timbro sulla linea: «Eravamo parole guerriere, adesso siamo Stato».