Nella mattina ancora intorpidita di Lisbona il pubblico comincia a entrare nel Culturgest, l’immenso palazzo che ospita esposizioni d’arte contemporanea, concerti e seminari e che, durante il Festival, è la sede principale di DocLisboa. L’orario delle prime proiezioni è sintonizzato con l’inizio della vita nelle strade della capitale portoghese, dove prima delle 10.30 si aggirano quasi solo i turisti, ma fin da presto le sale ospitano un buon numero di spettatori – in un clima di comunanza fra pubblico, addetti ai lavori e anche artisti ospiti del festival come James Benning: regista e artista visivo americano al quale DocLisboa dedica una serie delle proiezioni nella sezione New Visions, fra cui quella del suo recente L. Cohen.

E AGLI SPETTATORI che entrano nel Culturgest un paio di persone poco agguerrite consegnano un volantino che condanna il Festival del documentario portoghese: «DocLisboa sostiene il terrorismo!» – recita l’intestazione. Un’accusa la cui stessa pesantezza e mancanza di ironia svela la sua assenza fondamento: il film «incriminato», Their Own Republic di Aliona Polunina, presentato nel concorso internazionale, è stato tra l’altro anche il motivo di pressioni sul Festival dell’ambasciata Ucraina, che ha cercato senza successo di farlo rimuovere dalla programmazione. «Protagonista» del doc è infatti il battaglione Vostok, formazione paramilitare russa operante nell’autoproclamata Repubblica di Donetsk, che la regista segue all’interno del suo quartier generale nella cittadina di Yasinovataya nel corso del 2017. Quartier generale dal quale il doc non si sposta mai: è la vita nel campo che interessa a Polunina, la routine quotidiana di un gruppo di persone su una linea del fronte che ormai è quasi puramente immaginaria, esiste in funzione di una convinzione e una posa guerresca che è quella interiorizzata dai combattenti. Al campo si puliscono ossessivamente le armi – lanciarazzi, mitragliatrici, granate – che sono dappertutto, anche vicino alle brande, si comunica con gli «avamposti», si parla di morti e feriti ma la guerra appunto non c’è: «Non è più il 2014» dice con tono di sfida ai suoi ex commilitoni un disertore catturato e ricondotto prigioniero nel campo. Non sono infatti più i giorni dell’insurrezione all’indomani di piazza Maidan e dell’insediamento del nuovo governo ucraino: dopo gli accordi di Minsk e il cessate il fuoco la Russia non è più così vicina, e l’autoimposta legge militare all’interno di una formazione irregolare assume dei contorni opachi e incerti.

«DOVREMMO mettere del filo spinato» dice però uno dei «generali» dall’interno di una trincea scavata sottoterra, un altro durante il pranzo accarezza rapito il suo coltello: il conflitto e il senso di assediamento, la guerra con la sua follia e i suoi traumi continua a vivere all’interno dei confini del campo, anche se gli unici colpi che vengono sparati sono quelli per uccidere un paio di fagiani da cucinare per le truppe. A regnare nel quartier generale è la noia, la ripetizione di gesti automatici che tengono viva la propria illusione, ma anche il trauma della morte che da tempo ha insinuato sul campo la propria ombra. Un’osservazione insomma dell’assurdità della guerra senza che – nelle immagini girate dalla regista – venga versato alcun sangue, dalla quale risulta evidente che chi accusa il documentario di terrorismo non l’ha con ogni probabilità neanche visto. Their Own Republic non esalta degli «eroi», non crea martiri per il grande schermo, ma mette in scena un mondo chiuso e surreale in cui il conflitto ha assunto una forma perenne.