Avrebbe tutte le ragioni di imbufalirsi Maurizio Lupi, ex ministro dimissionato di brutta nonostante recalcitrasse peggio di un mulo caparbio. Nessun avviso di garanzia lo aveva colpito, nessuna iscrizione nel registro degli indagati. La sua permanenza nell’esecutivo risultava tuttavia sconveniente, e a ragion veduta. Perché non è questione di burocratiche iscrizioni in un registro che non dovrebbe in nessun caso apparire come albo dei condannati, ma di credibilità politica ed etica certamente sì.

Per Matteo Renzi, quella credibilità Lupi la aveva persa. Il sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione invece no. A lui, come agli altri 4 sottosegretari in medesima situazione, deve applicarsi con rigore il codice del garantismo, solitamente ignorato come se nulla fosse. Intervistato da Ezio Mauro a ReplIdee, la sagra ligure di Repubblica, il presidente del consiglio blinda il proconsole di Angelino Alfano in Sicilia, uomo chiave degli appalti per il Cara di Mineo: una vacca particolarmente grassa, un centinaio e passa di milioni.

Renzi minaccia sfracelli contro la corruzione: «E’ inaccettabile che la città della lupa diventi la città della mucca. Non faremo i finti tonti». Però, «non chiederò mai le dimissioni per un avviso di garanzia. Ho un padre indagato a Genova. Se ragionassi così, i miei figli non avrebbero dovuto vedere il nonno. Ho 5 sottosegretari indagati, ma credo che un cittadino è innocente fino a prova contraria». Impeccabile sulla carta. Molto più che discutibile nella sostanza. In sé un avviso di garanzia non vuol effettivamente dire niente, ma il livello di coinvolgimento di Castiglione nella torbidissima vicenda della speculazione sulla pelle dei migranti e i legittimi sospetti sul suo conto sono tali che le sue dimissioni sarebbero arrivate a strettissimo giro ovunque. Non nell’Italia di Berlusconi e Renzi.

La scelta di alzare barricate intorno al siciliano, che continua a professarsi innocentissimo e anzi stupito dal bailamme («Non ho motivo per dimettermi. Non ho nulla da riproverarmi e per Odevaine aveva garantito il Viminale») è a modo suo un giallo. Nelle prime ore di ieri pomeriggio da palazzo Chigi arrivavano segnali di senso opposto, gli elementi a carico del sottosegretario apparivano troppo circostanziati perché la sua permanenza non costituisse un elemento di estremo imbarazzo. Poi qualcosa è cambiato e lo stato maggiore di Renzi è partito in coro anticipando il pronunciamento del gran capo: in nome del garantismo non si deve dimettere e comunque è un problema dell’Ncd.

Impossibile dire con certezza cosa abbia spinto Renzi a cambiare idea. Avrà pesato qualcosa il fatto che Angelino Alfano, ministro degli Interni, difendesse a spada tratta il suo proconsole?

E in quella appassionata difesa, c’azzeccherà o meno l’ipotesi adombrata da Odevaine nelle intercettazioni, secondo cui la cooperativa di Cl «La Cascina» mungeva sì la vacca sì come suole, poi però girava parte del latte al nascituro partito del medesimo Angelino? Ma soprattutto, il premier sarà stato più o meno condizionato nella scelta garantista dal fatto che proprio nella medesima giornata l’alto protettore di Castiglione, nonché ministro degli Interni, avesse nelle sue mani la sorte della Campania?

Stava a lui decidere se dichiarare ineleggibile il governatore eletto De Luca prima o dopo la riunione del nuovo consiglio regionale. Se avesse proibito quella riunione, la Campania avrebbe dovuto votare di nuovo, con poche speranze per il partito di Renzi. Avendo invece saggiamente optato per dichiarare l’ineleggibilità dopo la prima riunione del consglio, De Luca farà in tempo a nominare il suo vice e per il Pd la Campania sarà salva. È vero che Renzi, nella medesima intervista, ha giurato che non farà una legge per salvare De Luca, ma la questione in realtà è secondaria. L’importante, per lui, è tenere la Campania, non il suo ineleggibile presidente.

Il sospetto di uno scambio non precisamente limpido è inevitabile, tanto più che Renzi sa perfettamente che per la difesa di Castiglione dovrà pagare un prezzo in termini di credibilità e popolarità. Alla Camera è già stata depositata la mozione di sfiducia di Sel. Lunedì al Senato verranno presentate a Grasso le firme per chiedere che Alfano riferisca in aula sull’intera vicenda dei centri d’assistenza trasformati in lucroso affare. Il M5S è all’attacco, e argomento di propaganda migliore non poteva trovarlo.

Renzi, nella sua lunga e bellicosa intervista, ha anche difeso, giustamente, il sindaco di Roma Marino e il governatore del Lazio Zingaretti: «Sono completamente altro rispetto alla cricca. Per troppo tempo si è sparato nel mucchio». Sacrosanto, non fosse che compito di un sindaco non è solo essere onesto ma anche accorgersi di cosa succede sotto i socchiusi suoi occhi.

Sul Pd, invece, il segretario del medesimo se la cava con la retorica: «Mi dicano chi sono i corrotti e li caccio». Peccato che la vicenda romana non parli di alcune e neppure di parecchie mele marce, ma di un sistema, del quale il Pd era a tutti gli effetti parte integrante. O per dirla col ruspante Salvatore Buzzi: «Ma qui sono tutti corrotti. Ancora non l’hai capito?».