Da giorni le canzoni nazionali risuonano nei campi palestinesi del Libano, dove si manifesta in solidarietà con i palestinesi di Gaza e dei Territori occupati. Ieri decine di manifestanti hanno raggiunto il confine meridionale e sono entrati brevemente nel territorio della colonia israeliana di Mtolleh, ricacciati dall’esercito di Tel Aviv che ha lanciato granate: un libanese è morto e un altro è rimasto ferito nello scoppio di due granate.

La sera prima tre razzi erano stati lanciati dal sud del Libano verso il nord di Israele, sono caduti in mare senza provocare danni. Gli scontri a Gerusalemme, nei Territori occupati e nelle città miste di Israele, e poi i bombardamenti su Gaza, agitano i rifugiati palestinesi in Libano.

Nei campi, dove ancora è possibile incontrare testimoni della Nakba, i giovani che non hanno conosciuto altro che la vita in questi insediamenti fatiscenti, si radunano per seguire gli aggiornamenti dalla Palestina e per protestare.

«Israele sta commettendo un crimine contro il nostro popolo, ma noi siamo uniti e siamo al fianco dei martiri che stanno dando la vita per la nostra terra. Questo è il segno di una nuova intifada», dice Zeinab Hajj, assistente sociale a Shatila, campo alla periferia di Beirut.

Nel campo profughi palestinese di Burj al-Barajneh, fuori Beirut (Foto: Ap)

 

Una nuova energia ha preso il posto dell’ansia e della frustrazione che pervade i campi palestinesi da quando un’enorme crisi economica, finanziaria e politica sta mandando al collasso il Libano, trascinando i palestinesi sull’orlo della sopravvivenza. «Oggi ci sentiamo ancora più uniti. Per quanto dispersi in tutto il mondo, noi palestinesi siamo un unico popolo», ribadisce Hassan Dbouk, 30 anni, consulente informatico del campo di Burj el Shemali, al sud.

In Libano i palestinesi sono considerati stranieri, privi di diritti e in maggioranza chiusi in campi sovraffollati. Per loro le prospettive sono scarse ed è su di loro che la crisi si abbatte con più furia, inclusa la pandemia di Covid 19. Ma non è il virus a fare paura, quanto il timore di patire la fame. «La nostra vita è precipitata di colpo a livelli bassissimi – spiega Hassan Dbouk – Ormai la maggior parte dei giovani vuole andare via, o almeno lo spera. Qui non c’è la possibilità di vivere una vita decente».

La situazione ha iniziato a deteriorasi da ottobre 2019: le proteste, poi il default, la pandemia e l’esplosione al porto di Beirut. A pagare il prezzo più alto sono i più vulnerabili: migranti, siriani e palestinesi. «La pressione sui palestinesi è aumentata a ritmi esponenziali – spiega Huda Samra, portavoce Unrwa in Libano – Si stanno impoverendo giorno dopo giorno e noi non riusciamo a far fronte a tutti i bisogni, mancano i fondi. I 150 milioni di dollari annunciati dagli Usa ci consentiranno di continuare a fornire servizi, ma non ci fanno uscire dalla crisi».

Tra i palestinesi, esclusi dall’esercizio di 39 professioni, il tasso di disoccupazione è schizzato al 90%, dice l’ultimo rapporto dell’associazione palestinese Beit Atfal Assumoud: l’86% lavora senza contratto. Chi, la maggior parte, percepisce il salario in lire libanesi, non ce la fa a far fronte alle spese: i prezzi alle stelle (aumenti del 400%) e la lira al collasso (ha perso il 90% del suo valore) stanno divorando gli stipendi.

Se il governo taglierà i sussidi alimentari che consentono di calmierare i prezzi, per difendere le riserve di dollari, l’inflazione galopperà e allora «non sapremo più come fare per mangiare», dice Zeinab: «Ci sono sempre più libanesi poveri e il governo aiuterà loro, noi saremo tagliati fuori. Ho venduto il frigorifero per poter pagare le medicine per curare mia madre che è ricoverata per Covid».

Da febbraio 2020 ci sono stati 12.070 casi e 376 morti per Covid nella comunità palestinese, spiega il dottor Riad Abo Elaynein, direttore generale dell’ospedale Hamshari di Sidone, il principale nosocomio della Mezzaluna Rossa palestinese: «Nei campi non c’è stato un vero lockdown e non è semplice osservare le norme di sicurezza in luoghi così angusti: il virus si è diffuso. Gennaio e febbraio 2021 sono stati i mesi peggiori. Per diminuire la pressione sugli ospedali, impieghiamo unità mobili per i tamponi e le cure domiciliari. Sembra che la situazione migliori, ma la campagna vaccinale è lenta».

Il governo libanese sta vaccinando anche i palestinesi: sulla piattaforma per le prenotazioni si sono registrati in circa 27mila (su circa 150mila idonei), ma c’è diffidenza nei campi e comunque le priorità sono altre. «Ci chiedono un sostegno regolare in denaro – dice Samra – Speriamo di riuscire anche quest’anno a distribuire assegni sociali alle famiglie, ma a loro serve un introito mensile e la copertura totale delle spese mediche».

Intanto, Assumoud parla di un aumento tra i palestinesi del consumo di droghe, disturbi mentali e depressione, problemi domestici, ma anche dei crimini, come d’altronde accade in tutto il paese, avvertendo del rischio che la frustrazione, non solo dei palestinesi, sfoci in violenza. Oggi, ricorrenza della Nakba, sono previste manifestazioni in tutti i campi.