In una straordinaria sequenza del Posto delle fragole di Ingmar Bergman, il protagonista Isak Borg, medico illustre in procinto di ricevere un’onorificenza per il suo giubileo professionale, sogna di dover affrontare nuovamente l’esame di Stato: lui, così celebre e stimato, si dimostra incerto e decisamente impreparato. «Almeno lo sa, lei, qual è il primo dovere di un medico?», chiede infine il docente incaricato di accertare le sue capacità cliniche. «Mi lasci riflettere un momento… Che strano, non lo ricordo più», risponde Isak, la fronte imperlata di sudore. A quel punto, sorridendo, il commissario esaminatore si sporge lievemente verso di lui e gli dice in tono pacato: «Il primo dovere di un medico è “chiedere perdono”».

La scena è evocata da Vittorio Lingiardi nel suo Diagnosi e destino (Einaudi, pp. 129, € 10,20), sintetica e opportuna riflessione sul concetto di diagnosi medica e psicologica, sui suoi modi e i suoi miti, e insieme indagine sull’esperienza di coloro che la formulano e sul grado di maturità delle risposte difensive, esplicite o implicite, di chi ne è oggetto – tutti noi, prima o poi. La ragione del riferimento alla sequenza onirica del capolavoro bergmaniano è chiara: nella sua relazione al paziente, ogni medico, ogni terapeuta esercita un potere, e lo fa appunto già attraverso la congettura diagnostica che identifica la malattia o il disturbo patiti.

Quello della diagnosi è il momento di una definizione che può salvare e riorientare una vita, ma anche costingerla nel perimetro di false evidenze e pregiudizi deteriori; è l’atto che può assegnare la persona a una terapia adeguata, condurla al riconoscimento dell’enigma della «psiche del suo corpo», aprirle una nuova possibilità di cura di sé, oppure imprigionarla nella gabbia di un tipo morboso classificato, riducendo perentoriamente l’individualità del paziente alle misure di un codice prestabilito che, socialmente e storicamente condizionato, può anche essere stigmatizzante (Lingiardi ricorda il caso prototipico dell’«omosessualità», che, come si sa, a lungo è stato il nome di una malattia).

L’argomento è assai delicato, restituito dall’autore sul filo di una domanda che – già oggetto di una ricca letteratura – potrebbe essere così condensata: in medicina e in psicologia la diagnosi è portatrice anzitutto di una spersonalizzazione del paziente, di uno slittamento nella tecnicità che riduce la persona a cosa tra le cose, oppure rappresenta un atto clinico dotato, nel bene e nel male, di un valore di conoscenza irrinunciabile, foriero del tentativo di rispondere ai limiti del corpo, all’inafferrabile mobilità della vita nel suo strutturale rapporto con il sintomo, l’infermità, la morte?

Forte della lezione psichiatrico-fenomenologica come dell’apporto psicoanalitico, e ottimamente istruito da quel sensibilissimo sismografo dei terremoti morbosi che è la letteratura, Lingiardi sa che, per rispondere, è bene evitare ogni posizione unilaterale, sottrarsi alle polarizzazioni in cui le interpretazioni pro o contro la diagnosi (e i manuali diagnostici, a cominciare dal controverso DSM, Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) manifestano la loro rivalità anche e forse soprattutto nell’epoca della progressiva scomparsa della medicina generale in favore di quella specialistica, dell’informatizzazione, diffusione e fruizione on line del sapere medico, dell’adozione di procedure cliniche sempre più standardizzate.
Il ricorso a un sapiente intarsio citazionale che, accanto ai teorici e ai saggisti, convoca pagine splendide, spesso poco note, di Franz Kafka, John Donne, Philip Roth, Raymond Carver, Allen Ginsberg, Lev Tolstoj, Virginia Woolf, Marcel Proust e altri, consente all’autore di insistere su una convinzione decisiva che, puntando al cuore stesso della relazione tra medico e paziente, è finalizzata a valorizzare la possibilità reale di una vera e propria alleanza terapeutica.

L’atto diagnostico è davvero il luogo vitale di una simile possibile alleanza quando non indietreggia di fronte alla profonda problematicità della propria natura e con le parole di Karl Jaspers, non smette di «rappresentare un tormento» per il clinico. Quando cioè diviene il luogo di una tensione fondamentale tra osservazione della persona malata e partecipazione ai modi in cui essa vive e nomina la sua patologia, tra la riconduzione del paziente a una categoria piú generale e il riconoscimento della sua unicità, dei modi in cui malattia e disturbo psichico ne singolarizzano la vita.

Valido diagnosta è chi considera la traduzione di leggi generali in declinazioni particolari, da un lato, e la formulazione di ipotesi generali a partire dall’incontro con il caso particolare, dall’altro, non come modi opposti della conoscenza, bensì come due momenti di un ritmo più ampio di esperienza che li congiunge e che consente di rispettare la parte di ignoto e indeterminato che insiste nella vita di ogni soggetto.
Con questa posta in gioco essenziale: cogliere i punti di forza, comunicare le specifiche risorse di cui ogni paziente dispone nell’incontro con quello che Virginia Woolf chiama il «miracolo del dolore»: incontro certo disastroso e indesiderato, ma anche capace di aprire la strada a un ripensamento complessivo e a una conoscenza rinnovata di sé.