Davide Ferrario a Torino gioca in casa, ma in questo caso gioca d’azzardo con un film che si intitola Sexxx, co-finanziato con il crowdfunding, che mette in scena il balletto coreografato da Matteo Levaggi dallo stesso titolo, con ballerini e ballerine praticamente nudi nelle loro calzamaglie trasparenti ma anche le scarpette d’ordinanza. Il film seduce con la forza ipnotica delle immagini di corpi armoniosi e muscolosi, potenti e sensuali, che danzano al ritmo di musiche rock non scontate (Bowie, Ultravox, e Zamboni e Canali dei Csi), alternando il prendersi e lasciarsi, l’intrecciarsi dei corpi, delle gambe nelle posizioni innaturali della danza classica a dei kamasutra evocati e subito scomposti – una sfida vinta a fare cinema col massimo della teatralità (il film è inserito nella rassegna «Palcoscenico»).

Ferrario ammette di non essere un frequentatore abituale di spettacoli di danza classica, ma in questo caso era stato attratto dal titolo Sexxx, proposto al centro della danza della Lavanderia a Vapore di Collegno (a proposito del titolo: Levaggi si era ispirato al libro di Madonna Sex, cui ha aggiunto le x che segnalano in America i film a luce rossa, e visto che Madonna era in città, le ha fatto avere il dvd del film attraverso la sua collega coreografa Carol Armitage.)
Comunque Ferrario non è nuovo a inventarsi sue forme personalissime di musical, con un uso della colonna sonora interno al montaggio e al racconto ne I figli di Annibale e Tutti giù per terra, passando per il musical carcerario, Tutta colpa di Giuda. D’altro canto il cinema è di per sé movimento: Orson Welles diceva di Fellini che «danza», ricorda Ferrario, wellesiano doc, fotografato col poster del festival 33 con un Welles giovane e smargiasso – un’immagine che lo associa al mitico regista, protagonista tra l’altro del suo romanzo Dissolvenza in nero.

Sexxx non è un balletto filmato ma un discorso sul corpo, avviato da un prologo di dipinti di nudi classici in un museo, in particolare Susanna e i vecchioni di Tintoretto, dove il corpo nudo entra in relazione con lo sguardo dei guardoni bavosi. Guardami del resto è un altro film di Ferrario dedicato al mondo del porno e siccome niente si butta Sexxx recupera alcuni brani girati all’epoca nella fabbrica ungherese del porno: corpi nudi, pezzi di corpi in strane geometrie, ma anche sguardi fissi nel vuoto di quel cinema. La sessualità stessa viene discussa all’inizio del film, dando lettura a un questionario che Levaggi ha proposto ai suoi ballerini per renderli più consapevoli del loro rapporto personale col sesso, anche per capire come si sarebbero sentiti a stare a seno nudo o a toccarsi sul palco. Un’altra «pausa» nel balletto è una scena in bianco e nero, due attori che interpretano la mattina dopo una notte di sesso, e a chiudere il cerchio alcuni versi di Allan Ginsberg che «santificano» le parti del corpo, nominandole col loro nome popolare e infine il lento carrello indietro dall’immagine di un uomo e una donna anziani nudi, in posa statuaria come gli sposi etruschi, alla galleria d’arte moderna Rebaudengo: si apre nelle sale di un museo e si chiude nell’astrattezza dell’arte contemporanea, dove quei corpi nudi, vecchi ma dignitosi, emanano un calore rassicurante.

Ferrario non ha ripreso il balletto nel suo svolgersi ma ha disegnato uno story board in cui lo ha frammentato in piccoli segmenti, girati poi in quattro o cinque modi diversi; montaggio quindi complicatissimo, affidato con ottimo esito a Cristina Sardo. La macchina da presa è quindi sul palco coi ballerini e diventa un elemento dinamico, partecipe del movimento, il che ha fatto dire a Levaggi che Ferrario gli «ha rotto il balletto» che in effetti non appare più nella sua totalità ma narrativizzato con primi piani dettagli e l’uso del linguaggio cinematografico (messa in scena, luci, colori, montaggio) oltre e quello del corpo. «Essere materiale per essere spirituale» spiega il regista, autoironicamente.
Il film verrà distribuito dalla Nexo che distribuirà anche l‘altro recente lavoro di Ferrario sull’Accademia Carrara di Bergamo, in quegli eventi «museali» nelle sale che stanno avendo un inatteso successo.

Nel variegato panorama del festival spicca un documentario «sulla Francia» che propone una riflessione necessaria in questi giorni di talk show inutili quanto perniciosi: La France est notre patrie di Rithy Panh che rovista nel passato-non passato della Francia coloniale. «Muto», ovvero raccontato da cartelli ma con toni ironici che sottolineano la retorica patriottarda e gli slogan della colonizzazione francese di Africa e sudest asiatico, il film del regista cambogiano, utilizza materiali di repertorio degli archivi coloniali, dagli anni Dieci fino alla fine degli anni Cinquanta, quando i francesi mollano agli Americani l’Indocina, che poi si chiama Vietnam, ed è un’altra sconfitta. Filmini amatoriali o arroganti documentari di regime in cui i bianchi se ne stanno comodamente seduti nelle loro carrozze trasportate da barche con i neri che remano. O «La Francia aiuta i suoi popoli a scoprire le rovine abbandonate» che accompagna immagini di templi nella giungla, donne a seno scoperto ma anche ragazze indocinesi in mutande e reggiseno esposte allo sguardo lascivo della macchina da presa e dei soldati coloniali che se le trascinano dietro; tanti preti e tante processioni, e alberi abbattuti. E poi la guerra dal cielo, i villaggi bruciati, come alla tv ai tempi del Vietnam: un misto di immagini belle e avvelenate, che spiegano se non giustificano l’oggi.