La mia avventura col Minafanclub? Cominciò nel luglio 1980, grazie a uno spiritoso annuncio letto per caso su «Music», confratello mensile dell’indimenticato «Ciao 2001»: «…Vorreste informare i vostri lettori à la page che è nato, tra pinot e mignonnes, in un comodo salotto di provincia, il Mina Fan Club? Spettatori attenti ma disincantati del circo Komein-Caltagiron-Cattin, cerchiamo di salvare, in un’atmosfera cistercense, dalle rovine di un impero che si sgretola, le espressioni più alte che l’era morente ha prodotto: la creatività, l’autoironia e Mina. Per gustare più da vicino i benefici della nostra istituzione, potete istigare il vostro compiacente pubblico a turbare la nostra pace al seguente indirizzo: Mina Fan Club Via Nino Bixio, 85 43100 Parma, telefono 0521… etc. ».
La lieta novella mi mandò in visibilio: Mina si era ritirata dalle scene da due anni e, per quanto il suo più recente doppio album Attila fosse ancora in hit parade a sette mesi dall’uscita, sui rotocalchi del periodo si straparlava di lei tirando quasi esclusivamente in ballo figli, amanti, tradimenti e chili di troppo. E le stesse riviste musicali tendevano troppo spesso a trascurarla a favore degli idoli del momento. Che bella sorpresa, quindi, apprendere che un gruppo di «minafolli» come me aveva dato vita a un’associazione il cui scopo principale era quello di «informare periodicamente i soci sul lavoro di ricerca e documentazione riguardante la più grande cantante italiana». Tentennai tuttavia diversi mesi – ah, la timidezza… – prima di decidermi a comporre il fatale numero telefonico parmense. Non ricordo più chi fu il mio affabile interlocutore all’altro capo del filo, ma quella chiamata mi aprì un mondo tutto nuovo di amicizie amabilmente eccentriche: Flavio Merkel, Fabio Saccani, Marco Piancastelli, Paolo Belluso, nonché un estroverso e geniale giornalista e dj di nome Mauro Coruzzi, anni più tardi noto come Platinette.

NEANCHE una settimana dopo essermi iscritto – ero il tesserato numero 73 – ricevetti in un colpo solo i bollettini pubblicati fino a quel momento: fascicoli dattiloscritti redatti con pochi mezzi, fotocopiati su una sola facciata, ma straripanti di passione, di meticolosa competenza, di amore vero. Dopo quella prima scorpacciata, le fanzine continuarono ad arrivare a ritmo quadrimestrale fino al 1984, anno in cui – dopo una quindicina di numeri – lo staff di Via Nino Bixio decise di chiudere i battenti. Una decisione inappellabile: «I redattori del Minafanclub sono tutti morti in un incidente automobilistico», era la risposta – condita di candido humour nero – data a chi li implorava di tornare sui loro passi.
Quello che successe in seguito è storia nota: dopo solo qualche mese, il Club riprese vita ad Aosta su iniziativa del sottoscritto e dell’amico Remo Prodoti, riprese a pubblicare fanzine – non più dattiloscritte, ma realizzate a mano – proseguendo la numerazione dei fascicoli parmensi ed «ereditando» dalla vecchia gestione alcuni dei suoi eccezionali collaboratori: Fernando Fratarcangeli per la discografia, Alberto Imparato per la cronistoria televisiva, Flavio Merkel e Mauro Coruzzi come superconsulenti storici. Più tardi si aggiunsero altre firme eccellenti: il minologo Antonio Bianchi, il critico musicale de «il manifesto» Stefano Crippa, la pasionaria Rina Gagliardi, il supremo Gherardo Gentili appena congedato dalle pagine di «Sorrisi» per raggiunti limiti di età. E col crescere del numero dei redattori, anche la nostra rivista ha continuato a evolversi – anno dopo anno, decennio dopo decennio – in forme sempre più raffinate, passando dalla grafica amanuense a quella computerizzata, dalle fotocopie in bianco e nero alla lussuosa veste tipografica dei patinati e coloratissimi numeri attuali. Il segreto di tanta longevità? Forse sta tutto in queste parole che la nostra Rina Gagliardi scrisse – poco prima di lasciarci – in occasione dei 70 anni della Tigre: «Mina è, ogni volta che la riascoltiamo, la nostra intatta giovinezza rivoluzionaria. Lei non c’è, eppure c’è. Ed è precisamente questa condizione che alimenta un desiderio per forza insaziabile. L’attesa spasmodica della leggenda. La bellezza del silenzio e dei suoi sporadici squarci. L’Eternità, più o meno».