I Virginiana Miller, quindici anni di carriera «sedici – sottolineano – se contiamo un anno di prove ancora senza nome» sempre in quello strano limbo che separa il gruppo di culto dalla fama definitiva e «riconosciuta». Un peccato perché i ragazzi di Gelaterie sconsacrate, folgorante esordio nel 1998 che suonava un po’ come il brit rock fuso con il miglior cantautorato italiano, hanno dimostrato una tenuta – qualitativa e di ispirazione – nel tempo, culminata con un David di Donatello per Tutti santi giorni, colonna sonora dell’omonimo film di Paolo Virzì e ora con un nuovo album, Venga il regno (Ala bianca/distr.Warner), e registrato al Sam Studio di Lari, appena uscito.

C’è una compattezza a livello musicale molto forte in questo vostro sesto lavoro, si sente la mano di Ale Bavo che in passato ha lavorato con Subsonica e Linea 77…

Sì, anche se è sempre affiancato dal nostro «storico» mixer Ivan A. Rossi. Ci è piaciuto mettere in rapporto due attitudini forse opposte e mediarle e siamo contenti del risultato. Un disco dove c’è elettronica, certo, ma le chitarre suonano come devono suonare.

Nei testi siete sempre molto attenti a raccontare la realtà. Venga il regno è forse il vostro album più «politico»

Sì, ma da un certo punto di vista probabilmente è un disco che cerca di raccontare il «dopo». Cioè non una cosa che deve avvenire, ma che è avvenuta. Forse per il fatto è che tutti noi ormai siano intorno ai 45 anni, abbiamo un’età dove probabilmente le apocalissi che dovevano esserci ci sono già state davvero. Tutte le vie che uno credeva di poter percorrere sono chiuse e alla fine ti rimane una sola strada da percorrere. Ecco, forse sono canzoni che fanno i conti con quello che è rimasto. Però da un altro punto di vista non vorremmo sembrare negativi tout court. Non è detto che avere meno possibilità sia necessariamente negativo, forse averne poche alla fine significa cercare di sfruttare al meglio quello che hai.

Fra le righe di «Anni di piombo» – con quella citazione dall’ultima lettera che Moro spedisce alla moglie prima di essere assassinato – spiegato come gli anni settanta ci abbiano traghettato nel corso dei due decenni successivi verso la deriva berlusconiana…

Sì, ci interessava raccontare quel fatto storico – quel periodo – in cui come nazione ci siamo giocati tutta una serie di grandi possibilità. Ma nel pezzo affrontiamo anche la riemersione da questa lunga notte della repubblica. Un po’ come ha fatto Marco Bellocchio, anche se sembra irriguardoso il paragone, con quell’immagine di Moro alla fine non più condannato a morte ma libero….

«Credo nel partito comunista e nei Pink Floyd, in Gesù Cristo il redentore e in Berlinguer», cantate in «Lettera di San Paolo agli operai»…

È forse il pezzo più disperante del’album, dove ci sono gli italiani e le tante contraddizioni e visioni vissute in quel decennio, nei 70. Abbiamo sintetizzato tutto in quella frase, era come cercare di lasciare una traccia in quello che si è creduto. Ecco, l’apocalisse c’è già stata e ora venga il regno…
Curioso il serv

izio fotografico, con voi travestiti da soldati in divise d’epoca e un po’ in disarmo…

Non sappiamo come ci siamo arrivati. Eravamo a casa – ma definirla così è riduttivo – di un’amica, in una sala dall’arredamento vagamente in stile napoleonico e ci siamo detti che era il posto ideale per il servizio. Sembriamo una specie di armata brancaleone che poi alla fine è quella in cui ci riconosciamo.
Vi aspettavate di vincere il David?
No,anche perché nominati con noi c’erano Pagani e Renga: a noi bastava aver visto il Quirinale, presenziare al rinfresco, eravamo contenti già così. È stata una bella emozione, Simone è anche inciampato sugli scalini…

E a proposito, Simone, Virzì ha preso spunto dal tuo libro «La mia generazione» anche se in realtà ha raccontato un’altra storia. Ti ha infastidito?

Assolutamente, non credo negli adattamenti cinematografici. Se scrivi un romanzo è anche probabile che serva da spunto perché qualcuno faccia un’altra cosa. Succede così anche nella musica, senti delle canzoni da piccolo e poi ti viene voglia di scrivere. Reagisci cercando a tua volta di fare altro.

Il brano che chiude il disco si intitola «L’eternità di Roma». Sulla decadenza della città eterna Sorrentino ha girato «La grande bellezza», voi fate strani accostamenti tra «gotham city e botulino». In qualche modo l’idea di raccontare Roma come archetipo della crisi, morale e materiale, italiana in qualche modo è espressa anche nella vostra canzone…

Assolutamente sì, tanto che quando abbiamo saputo che Sorrentino stava girando un film su questo tema, abbiamo provato a mandargliela ma probabilmente eravamo fuori tempo massimo. La nostra è una visione tra le mille possibili, perché Roma è talmente multiforme. Però è innegabile che negli ultimi dieci anni ci è capitato di venire a Roma, camminare per strada e trovare rigurgiti del «decimo anno dell’era fascista»: fasci littori disegnati ovunque. Un po’ imbarazzante…

«Venga il regno» arriva a un anno dalla sua effettiva registrazione…

È lo scotto che si paga quando lavori da indipendente: l’ultima cosa che fai è cercare un’etichetta e quindi i tempi si dilatano. Certo non è un modo di fare corretto, il fatto è che un lavoro pianificato in autonomia e le case discografiche non lo accettano completamente… In più ci si è messo il fatto che abbiamo mandato Anni di piombo a Sanremo, poi non l’hanno voluta e abbiamo… elaborato il lutto.