Padri e figli. Parlando del suo nuovo film, in concorso alla Berlinale, Jeff Nichols dice che molto di questa storia ha origine nella sua paternità, nei cambiamenti che produce avere un figlio. Ma nei suoi film, dal primo Take Shelter a cui Midnight Special molto si avvicina ritrovando anche il magnifico Michael Shannon come protagonista,«padre e figlio» è una figura centrale, la relazione primaria intorno alla quale si organizza il movimento dei suoi personaggi, e quel paesaggio profondamente «americano», solcato da paure e da una disperata ricerca di salvezza che li attraversa. Era così anche in Mud e torna, appunto qui, forse stavolta con un controllo meno serrato che nel film d’esordio nel moltiplicarsi di ossessioni quotidiane che dallo spazio privato invadono con violenza quello collettivo.

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Che cosa sai di Alton Meyer? La domanda rimbalza dai notiziari di radio e tv: un ragazzino di otto anni è stato rapito, non si hanno sue fotografie ma solo dettagli sul colore degli occhi, blu, sul peso e l’altezza. Il volto sbattuto in prima pagina è invece quello di uno dei rapitori, Roy (Shannon). Nella stanza d’albergo l’uomo insieme a un altro, suo amico e complice, entrambi armati, guardano la tv con ansia mentre il ragazzino sotto una tenda legge. Ma quando il rapitore lo chiama per andare non sembra affatto spaventato: lo segue docile e affettuoso, lo chiama «daddy», «papà». Cosa significa? Quale segreto nascondono, da cosa fuggono rischiando la vita e la galera? L’uomo ripete che deve salvare il bambino, portarlo in un luogo misterioso ma tutti li cercano, la polizia, l’esercito, la Nasa, l’Fbi, il capo della setta (Sam Shepard) dove vivevano, nel Third Heaven Ranch, che glielo ha portato via. Persino il sole è una minaccia, il ragazzino non può guardarlo, rischia la morte, la loro è una fuga nell’oscurità, quasi come dei vampiri, da qualcosa che non sappiamo, un segreto pesante, doloroso, il trauma di una perdita, di una separazione forzata.

Le tracce si moltiplicano, la realtà sfuma: tutto può essere vero se ci si crede, se è dentro la tua testa, se diventa il mezzo per resistere al mondo, a una condizione che può far male. Il ragazzino ha poteri soprannaturali, che lo rendono una potenziale arma imbattibile per la guerra globale, o il nuovo messia con cui governare le anime fragili, la chiesa armata della setta se ne serve e vorrebbero servirsene anche gli apparati militari e l’intelligence meno che quello studioso che ne riesce a decriptare le chiavi misteriose (Adam Driver) il solo attratto dalla passione dell’ignoto e della conoscenza , libero dai pregiudizi del suo ruolo e guidato invece dal desiderio di capire fino a diventare quasi complice di quella figura misteriosa.

Et e Incontri ravvicinati del terzo tipo (ma c’è anche una mamma umiliata dalla setta come Eva nel paradiso) sono l’ispirazione dichiarata per il personaggio del ragazzino, una fantascienza come proiezione dello stato d’animo, della fragilità e del desiderio di un rifugio. Non sappiamo cosa è «vero», forse il ragazzino è solo malato, forse i genitori lo hanno perduto, forse il loro è il fantasma di un lutto e di una impossibile serenità familiare. Poco importa. La scommessa di Nichols è di andare oltre, ed è rischiosa, spiazzante (molti i fischi in sala), commuove e pure si perde ma fa parte delle cose, ed è anche il fascino strano dell’imperfezione.

La paura: non è del resto il sentimento molto al di qua del nostro tempo? Paura che mette in discussione i ruoli, paura che fa crescere il gusto delle armi (pure se non possono nulla se non generare altra morte, «non sparare» grida il bimbo alieno) paura della diversità, di quello che è fuori da noi, dalle nostre regole, dalla nostra visione delle cose. Paura del maschio di non essere all’altezza, e dunque di non essere padre abbastanza di un figlio «diverso», misterioso, marziano. Difatti la sola forte, disarmata, capace di accompagnare il figlio è la madre – splendida Kirsten Dunst – la donna, il femminile che può sorridere e sa come rinascere. Ma anche questo è un fantasma molto maschile, come quasi tutti quelli che popolano l’universo di Nichols, miti letterari, leggende metropolitane e paradigmi molto attuali che parlano del nostro tempo con lucidità, provandone a toccare le corde meno evidenti.

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La stessa angoscia solitaria che pervade il bianco e nero di Io, Olga Hepnarova, eroina nouvelle vague più godardiana che nuova onda praghese, nel film di Tomas Weinreb e Petr Korda, apertura affollatissima (e con molte proiezioni visto il numero di accreditati rimasti fuori) di Panorama, e opera prima compatta nonostante le sue ingenuità . È il corpo sbilenco e spudorato della protagonista, sigaretta eterna alla James Dean di Gioventù Bruciata che guida il film immagine dopo immagine (splendida Michalina Olszanska, già futura star delle cinematografie dell’est) ispirato a una figura «vera», l’ultima donna condannata a morte in Cecoslovacchia per avere ucciso molte persone travolgendole con un camion.

Figlia della borghesia integrata, rabbiosa ribelle, un tentato suicidio, la clinica psichiatrica, l’odio per la madre e per il mondo, la scoperta dell’omosessualità che la fanno vestire da uomo, amare le donne, e non riuscire però a smettere di odiare il mondo. Solitudine e alienazione, la ricerca di una rivolta che diviene solo follia privata.

È il socialismo reale della Primavera praghese da poco sconfitta, siamo all’inizio degli anni Settanta, e l’impossibile rivendicazione di un posto che non sia quello preordinato dall’ordine sociale. Scontro tra singolo e collettività senza più nessuna via di fuga. Olga è diretta, sensuale, sporca e trasandata, la ragazza che ama è sempre perfetta, Olga sa farla godere ma è troppo emarginata, una specie di butch prima del tempo, almeno in quel mondo e in quell’epoca. Decide di diventare un autista, troppo bella in quel mondo di soli uomini che la guardano stralunati senza il coraggio di avvicinarla. Rabbiosa, detestata dalle colleghe, sempre pronta a fare qualcosa che possa rovinare ogni rapporto.

La scelta della patina vintage rende le atmosfere monocolore dell’epoca, e quella battaglia disperata, da pazza della protagonista ancora più impossibile, rivendicando una sorta di relazione a distanza con la storia del cinema ceco, e delle sue figure femminili. Olga e la sua assurda ribellione, tutta contro sè stessa, è una bella immagine per dire la fine di ogni utopia. Se poi era allora o se è oggi sta a noi decidere.