È facile essere travolti dalla fiumana di titoli presentati al Festival di Cannes. Il programma è abnorme, spalmato su più sezioni, creato non a misura d’uomo. Cannes è il centro gravitazionale del mercato cinematografico internazionale, della fittissima rete festivaliera che inizierà a prendere forma proprio sulla Croisette e di una incalcolabile falange di giornalisti, critici e cinefili. Insomma, a Cannes c’è tutto, troppo. Il rischio è di sacrificare eccellenti visioni sull’altare di percorsi standardizzati, schiavi del concorso e di qualche nome noto e ricorrente.

Tra i mille rivoli di questa fiumana di immagini, sono indubbiamente molti i titoli che meriterebbero di essere segnalati e recuperati, in primis quelli meno scontati. Ripeschiamo, in questo caso, Ikarie XB 1 (1963) di Jindřich Polák e The Wailing (2016) di Na Hong-jin, distanti tra loro sia temporalmente che geograficamente, ma accomunati da una elaborazione e declinazione assai fertile e stratificata del cinema di genere. Definizione, quella del cinema di genere, che è soprattutto di comodo, per indicare le prime coordinate e cercare di inquadrare opere piuttosto complesse.

Tra i più fulgidi esempi della science fiction d’oltrecortina, realizzato un anno dopo il lungometraggio sovietico I sette navigatori dello spazio di Pavel Klushantsev, Ikarie XB 1 anticipa di qualche stagione le esplorazioni interstellari e l’afflato pacifista di Star Trek, il design essenziale e alcune suggestioni di 2001: Odissea nello spazio, le derive claustrofobiche di Alien, le visioni tarkovskiane di Solaris lo sceneggiatore Pavel Juráček adatta il romanzo La nube di Magellano, pubblicato nel 1955 da Stanisław Lem, autore sei anni più tardi di Solaris.

Una space opera profondamente umanista, proiettata verso un possibile futuro internazionalista, libero, finalmente lontano dalla corsa agli armamenti e dalle tensioni politiche. La metafora del viaggio verso Alpha Centauri e il “pianeta bianco”, portatore di energia positiva e vitale, contrapposto alle inclinazioni autodistruttive e guerrafondaie della Terra, mantiene inalterata la sua penetrante forza politica ed emotiva, nonostante il mezzo secolo di fantascienza passata sul grande schermo e le mirabilie visive della computer grafica. Anche sul piano visivo, così squisitamente d’antan, Ikarie XB 1 non sembra subire lo scorrere del tempo: il design dell’astronave, al pari degli abiti e delle tute spaziali di questo equipaggio significativamente cosmopolita, non rincorre eccentriche soluzioni ma è improntato a un minimalismo realistico, futuribile. Le sequenze in “esterni”, coi modellini delle astronavi che non sfigurano immerse nell’ignoto spazio profondo, mantengono inalterato il loro fascino panoramico – il film è girato in bianco e nero e in formato 2,35:1.

Grazie al minuzioso e rispettoso restauro in digitale, uno dei classici della fantascienza dell’Europa dell’Est torna nella sua forma originaria. Anche nei suoi, non molto evidenti, difetti: assai condivisibile, in questo senso, l’approccio dei laboratori del Magyar Filmlabor di Budapest, supervisionati dal National Film Archive di Praga (www.nfa.cz), che non hanno voluto “attualizzare” Ikarie XB 1, che nella sua nuova forma digitale conserva anche le indicazioni per il proiezionista. Tracce di un passato cinematografico che, con effetti rigorosamente artigianali, cercava di sondare il nostro futuro…

L’operazione di restauro permette inoltre di cicatrizzare definitivamente la dolorosa ferita della versione rimontata a suo tempo per il mercato internazionale, con doppiaggio in inglese e finale posticcio che stravolgevano e tradivano le intenzioni di Polák e Juráček. Un salutare viaggio nel tempo.

L’opera terza del regista e sceneggiatore sudcoreano Na Hong-jin, The Wailing, è un thriller ambientato ai nostri giorni che sequenza dopo sequenza si inabissa in una dimensione orrorifica e sovrannaturale. La cittadina rurale, i poliziotti rubicondi e un primo brutale omicidio sembrerebbero proseguire sul sentiero tracciato da Bong Joon-ho e dal suo crudo thriller Memories of Murder (2003), caposaldo della New Wave sudcoreana. Ma The Wailing imbocca ben presto traiettorie inattese, ingannando lo spettatore con twist narrativi, cambi di ritmo e di tono, sconfinamenti di genere: un script senza tregua, senza un attimo di respiro, densissimo, eppure agile nei suoi centocinquantasei minuti.

Salito alla ribalta con The Chaser (2008) e The Yellow Sea (2010), Na Hong-jin compie un ulteriore passo in avanti. La contaminazione tra thriller e horror, con commoventi inserti melodrammatici, non risponde a mere necessità spettacolari e permette al cineasta sudcoreano di immergere personaggi e spettatori in una fitta trama di credenze popolari, superstizioni e antiche pratiche religiose. Un viaggio allucinatorio in una dimensione sospesa tra le tenebre e il crepuscolo, in un “passato” che sopravvive ai margini estremi di una nazione economicamente e tecnologicamente avanzata.

The Wailing sonda i lati oscuri del folklore e dello sciamanesimo e affonda il coltello anche nell’animo nero della gente comune, nell’ignoranza che alimenta il pregiudizio, l’odio: il regista affida a Jun Kunimura, ai suoi lineamenti vissuti e ambigui, il ruolo dello straniero, del misterioso giapponese che vive nei boschi e che porta sventura. Dopo i sino-coreani (joseon-jok) di The Yellow Sea, Na Hong-jin focalizza nuovamente l’attenzione su altri “indesiderati”, in questo caso simbolo di una Storia che difficilmente potrà essere rimossa – la Corea diventa protettorato giapponese nel 1905 e colonia dal 1910 al 1945.

Mentre il restauro di Ikarie XB 1 ci permette di riscoprire un’umanità proiettata verso il futuro, sempre più lontana dagli spettri (atomici) del passato, The Wailing scava tra le paure ancestrali radicate nell’inconscio collettivo, tra demoni e fantasmi, negando fino alla fine qualsiasi certezza e lasciandoci tremanti nel crepuscolo. Fertili paradossi temporali intercettati nella dimensione parallela della Croisette.